A novembre il
governo Berlusconi decide di affrontare il problema dello smantellamento dei
vecchi siti nucleari. Se per il precedente governo l’intenzione era quella di
trovare un percorso legislativo il più possibile trasparente che rendesse
partecipe del progetto l’intera nazione, per il governo in carica la soluzione
si definisce in modo più semplice: trovare un luogo il più possibile lontano
dal nord
dove portare subito le barre di combustibile irraggiato stoccato nelle piscine
di quegli impianti, e quindi occuparsi della sistemazione delle altre scorie,
in un progetto di tempistica accelerata.
La prima mossa è quella di cambiare il
Consiglio direttivo di SOGIN, comunque in scadenza a fine anno. C’è fretta di
agire ed il 7 settembre 2002 il vecchio CdA da le dimissioni in blocco ed il
ministro dell’economia (l’on. Giulio Tremonti) ne nomina uno nuovo. I componenti
sono 7 in luogo di 5, grazie ad un nuovo statuto societario che permette di
avere fino ad un massimo di 9 consiglieri. Il motivo? « Determinare una maggiore flessibilità nella composizione del Consiglio
».
Flessibilità o qualche poltrona in più?
Come amministratore delegato, all’ing.
Raffaello De Felice, è preferito l’ing. Giancarlo Bolognini.
Si individua poi una nuova carica, quella di
vicepresidente: sarà Paolo Togni, capogabinetto del Ministero dell’Ambiente,
figura emblematica che con questa funzione definisce un conflitto di interessi
tra controllore e controllato. Togni infatti è responsabile dell’Apat, che
ha il compito di valutare e approvare i progetti della SOGIN, e da Togni
dipende anche l’ufficio di Valutazione di Impatto Ambientale, che deve dare la
sua autorizzazione alla costruzione dei depositi per le scorie. La domanda è
semplice: può, Paolo Togni del Ministero “multare” il Paolo Togni della SOGIN?
Una domanda che si fà anche l’onorevole Sodano
La figura più importante della società sarà
un generale degli Alpini, tale Carlo Jean, che diventa presidente della società
al posto di Maurizio Cumo. Un militare al posto di un fisico! Quest’ultima
scelta è stata fatta direttamente dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
È significativo il fatto che il generale
Jean, in breve tempo, diventi il deus ex
machina della SOGIN.
Una nuova SOGIN che ha le idee chiare su
cosa fare, come dice il suo generale il 29 gennaio 2003 davanti alla VIII
Commissione Ambiente della Camera che in quei giorni sta conducendo un’indagine
conoscitiva sul problema nucleare. Per il presidente di SOGIN la prima
necessità è quella di disporre di normative adeguate al tipo di smantellamento
che si è ipotizzato. «Mi riferisco, cioè,
alle incertezze sui tempi di approvazione dei vari atti, ciò che implica un
ritardo del nostro paese in rapporto ad altri », dice il generale. Inoltre,
ed ecco che emerge il decisionismo militare, « si pone il problema della grossa diffi- coltà di rispettare determinati
tempi, ulteriormente dilungati in ragione delle esigenze di concertazione con
gli enti locali. Seppure le istanze ed i rilievi di questi appaiano
comprensibilissimi, altrettanto innegabile è l’effetto di ritardo indotto da
tali dinamiche, causa di notevole incertezza nella programmazione e
progettazione delle opere stesse. » La soluzione è comunque semplice,
sostiene il generale, basta « un’azione
molto chiara e netta del Parlamento, o meglio ancora una decisione congiunta,
governativa e parlamentare, volta a porre il deposito nazionale fra le
infrastrutture prioritarie da realizzare, appunto, a livello nazionale,
operando al di fuori delle regole ordinarie ». Decisionismo, azione e se
necessario... operare fuori dalle regole ordinarie. Questa la strategia della
nuova SOGIN che il governo farà sua un mese dopo (12 febbraio 2003) decretando
l’emergenza terrorismo per i siti nucleari affidando proprio al generale Carlo
Jean, presidente di SOGIN, la qualifica di Commissario delegato del governo (7
marzo 2003) con il compito di gestirla… al di fuori delle regole ordinarie.
L’emergenza
terrorismo
Il 12 febbraio 2003 il governo Berlusconi
dichiara l’emergenza sui territori che ospitano le installazioni nucleari.
Piemonte, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Basilicata si ritrovano dall’oggi
al domani ad avere luoghi dove detta legge un generale! I motivi per chiedere
al presidente della Repubblica di firmare un decreto di emergenza sono più di
uno, ma quello che attira l’attenzione dei media è la parte del decreto che
individua la possibilità di attentati terroristici ai depositi di scorie
radioattive. Una possibilità remota, che però pone in secondo ordine le altre
motivazioni.
Ad esempio, nessuno si preoccupa che sia
stata dichiarata un’emergenza perché esiste l’ineludibile “necessità di
assumere iniziative straordinarie ed urgenti » per realizzare « lo smaltimento
dei siti”; questo significa che il commissario avrà potere di prescindere da
normative eegionali e nazionali che, secondo il governo ed il generale,
impediscono una veloce messa in sicurezza delle scorie. La gestione delle
scorie radioattive non può però avvenire accelerando le procedure. Se esiste
una materia nella quale il ‘presto’ è nemico del ‘bene’ è proprio quella
nucleare.
Cosi come nessuno si preoccupa che sia dichiarata
un’emergenza per salvaguardare gli “interessi pubblici” concentrando “in un
unico centro decisionale” l’attività per la messa in sicurezza dei siti
nucleari per ”alvaguardia della salute della collettività”. Con un generale a
gestire lo smantellamento dei siti vuol dire una cosa sola: per assicurare la
sicurezza della popolazione è necessario “militarizzare” il problema. Da quando
in qua la salvaguardia della collettività si fa con la segretezza ed il
silenzio in luogo della trasparenza e dell’informazione? Se guardiamo quello
che succede oggi quella decisione non può sorprendere. C’è da combattere la
criminalità? L’esercito nelle città. Si deve realizzare il termovalorizzatore
per i rifiuti campani? Si recinta l’area dove lo si sta costruendo e la si
dichiara zona militare.
L’attenzione dei media è però attirata da
un’unica premessa: quella che sostiene come l’emergenza sia necessaria
“ritenuto che l’attuale contesto di rischio derivante dalla presenza di tali
rifiuti radioattivi è caratterizzato da profili di maggiore gravità in
relazione alla situazione di diffusa crisi territoriale”. In Italia ci sono più
di 20 strutture che stoccano scorie radioattive
e
decine di ospedali che operano nel campo della medicina nucleare. Il
decreto di emergenza riguarda però solo i siti dove sono stoccate le scorie
ereditate dalla produzione nucleare degli anni Settanta, cioè i siti sotto
controllo diretto o indiretto della SOGIN: E gli altri 13 siti che detengono
scorie radioattive? E gli ospedali? Nel centro ISPRA di Varese, per esempio,
sono stoccati tal quale 2300 m3 di materiale radioattivo, oltre ad alcune
decine di elementi di combustibile nucleare; come nel deposito civile CRAD di
Udine dove sono stoccati rifiuti radioattivi provenienti da attività di medicina
nucleare e sorgenti radioattive dismesse per 1000 m3. Per queste istallazioni
non c’é pericolo di attentati?
Nella realtà non esiste alcun problema di
attentato terroristico, come riconosce lo stesso generale Jean addirittura un
mese prima di essere nominato commissario delegato per l’emergenza!
È Il 23 febbraio 2003 ed il problema SOGIN è
in audizione presso la Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti.
L’emergenza è stata dichiarata solo una settimana prima (12 febbraio 2003) ma
il generale Jean rassicura i deputati sulla sicurezza dei siti? Strana
emergenza.
«I furti sono da escludere perché chi andasse
nella zona irraggiata a prendere un elemento fortemente irraggiato non vivrebbe
a lungo, non uscirebbe dall’impianto.» L’emergenza è appena stata
dichiarata e una settimana dopo il massimo responsabile di SOGIN, la società
proprietaria delle centrali nucleari, dice che non esiste alcun pericolo? A
quanto pare è tutto sotto controllo visto che, dice ancora, «i sistemi di antintrusione dei siti della
Sogin – ve lo posso assicurare per esperienza diretta – sono al livello di
quello che abbiamo a Comiso intorno al deposito di armi nucleari». Le
centrali? Sicurissime anche perché «sono
protette da tre metri e mezzo di calcestruzzo». Magari il problema è per il
combustibile che è affogato nelle piscine e «per quelle la sicurezza al cento per cento non esiste perché un aereo
potrebbe sempre colpire e rompere una vetrata dell’edificio» dice sempre il
generale. La soluzione è comunque già pronta: «occorre accelerare al massimo la messa in sicurezza dei materiali nei
cask che hanno intorno 15-20 centimetri di acciaio» inserendoli poi «in una specie di alveare di cemento armato,
a prova di impatto di un aereo».
Teniamo presente che i cask di cui parla il
generale sono studiati per resistere all’impatto di un aereo e poter garantire
l’integrità del manufatto a temperature che possono raggiugere i 300 °C. e che
negli Stati Uniti sono stoccati all’aperto.
Non solo le centrali sono ben protette, ma
lo sono anche i laboratori ENEA che a breve passeranno sotto il controllo della
SOGIN e del commissario delegato. «Abbiamo
adeguato le misure di sicurezza dei nostri impianti, come ha fatto anche
l’ENEA, ente con il quale ci siamo accordati per avere tutti, più o meno, lo
stesso livello di sicurezza», sostiene il generale nel corso della sua
audizione presso la Commissione, spiegando cosa fosse già stato fatto: « Abbiamo cominciato col mettere dei camion di
traverso, poi abbiamo messo paratie di cemento in modo da impedire che vengano
sfondati i cancelli ».
Se poi non bastassero le parole del
presidente di SOGIN, ecco il parere del direttore del SISDE, il generale Mario
Mori, ascoltato dalla stessa commissione il 15 aprile 2003 a un mese dalla
dichiarazione d’emergenza e dalla nomina del generale a Commissario. «Riguardo al terrorismo e ai rifiuti
radioattivi, il problema è potenzialmente molto serio, da tempo si ipotizza che i gruppi criminali di terrorismo
internazionale possano far uso di certe strutture (noi parliamo di NBC, cioè
biologico, chimico e nucleare) […] ma
non abbiamo memoria né dati che si riferiscano a scorie radioattive ».
Insomma: per quanto questo tipo di attentato sia sempre possibile, sostiene
Mori, non si hanno informazioni sulla base delle quali si possano fornire
indicazioni concrete e specifiche.
In realtà la dichiarazione di emergenza è
solo un escamotage per poter gestire,
senza troppi controlli, i 468,3 milioni di euro che l’Autorità per l’Energia
Elettrica e il Gas ha concesso qualche mese prima alla SOGIN. Grazie
all’emergenza si delinea la possibilità di gestire quel fiume di denaro senza
controlli esterni. Basti dire questo: le ordinanze del commissario sono
immediatamente pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale e diventano legge.
Questa dichiarazione di emergenza è un fatto
senza precedenti nella storia della Repubblica. Per la prima volta un atto
amministrativo del governo (lo stato di emergenza per lo smaltimento dei
rifiuti radioattivi che interessa cinque regioni) si trasforma in una scelta politico
militare per l’intero paese, con conseguenze importanti sul piano del rispetto
delle leggi e delle normative internazionali. Un indirizzo preciso quindi, che
segna una svolta nel rapporto tra cittadini, istituzioni e differenti funzioni
dello Stato.
Il
commissario delegato
Il commissario è nominato il 7 marzo 2003.
La scelta cade sul generale Carlo Jean che si trova a ricoprire così due
cariche: quella di presidente di SOGIN e quella di Commissario.
Al generale è affidata, prima di tutto, la sicurezza
dei siti, che comprende l’adeguamento delle protezioni fisiche delle strutture
nucleari onde proteggerle da attentati terroristici ma anche la gestione dello
smantemllamento. In pratica, con la scusa del terrorismo, si trasforma
un’attività “ordinaria”, lo smantellamento dei siti nucleari, in un’attività
‘straordinaria’.
Il generale può prescindere da ben 21 leggi
ambientali regionali e nazionali. Ad esempio, ha la possibilità di derogare
alla procedura per il rilascio dell’autorizzazione alla disattivazione delle
centrali nucleari, anche materia di protezione sanitaria della popolazione e
dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti. Si
tratta di deroghe che gli permetterebbero di costruire, per motivi di
sicurezza, un deposito di scorie radioattive nel centro di Roma! Deroghe anche
circa le norme regionali e nazionali sugli appalti pubblici, consentendogli di
affidare direttamente un appalto all’azienda che ritenesse più idonea.
Appena ricevuto l’incarico, il generale Jean
decide che la SOGIN sarà “l’organo attuatore delle decisioni del commissario”,
configurando un chiaro conflitto di interessi che bloccherà di fatto l’attività
della società.
Solo la Corte dei Conti, quando esegue il
primo controllo sui Bilanci SOGIN nel 2003,
evidenzia, nella sua relazione al Parlamento, come la scelta da parte del
commissario governativo di usare la SOGIN come suo organo attuatore determini
una “sovrapposizione rispetto alla missione istituzionale SOGIN” che crea
confusione tra l’attività straordinaria e quella ordinaria. Non solo esiste un
conflitto di interessi ma non sarebbe corretto neppure il finanziamento
dell’emergenza per il quale “il Commissario delegato si avvale delle risorse
finanziarie previste per lo smantellamento delle centrali elettronucleari”.
Per la Corte quel finanziamento non può
essere usato dal commissario perché “la determinazione degli oneri per gli anni
2002-2004 è avvenuta da parte dell’Autorità e deliberata poi con decreto
ministeriale sulla base del programma annuale e triennale SOGIN, nel quale non
erano, né potevano essere incluse previsioni di attività demandate al
Commissario per l’emergenza”. L’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas
aveva finanziato la SOGIN per gestire un’attività ordinaria. Soldi che il
commissario non dovrebbe usare dal momento che, dice la Corte in quella
relazione, vige il principio “in base al quale ogni nuova spesa richiede il
sostegno di nuove o maggiori entrate”. Al limite, conclude la Corte, tutto
questo potrebbe essere visto come una “soluzione temporanea di far ricorso a un
sistema di anticipazione da parte di SOGIN”. Le osservazioni della Corte
cadranno nel vuoto.
In definitiva, esiste una società, la SOGIN,
alla quale è stata sottratta la sua missione e un commissario governativo, il
generale Carlo Jean, che deciderà su tutto. Senza pudore si usa la
dichiarazione di emergenza per ridisegnare la SOGIN in modo da farle perdere la
sua autonomia trasformando un’operazione, la gestione dei rifiuti radioattivi,
che in ogni paese è condotta da enti governativi con la massima trasparenza, in
un affare “privato” che il governo, tramite la figura del commissario delegato,
gestirà senza informare né il Parlamento né la popolazione.
È interessante menzionare un fatto che
spiega bene quale sia il pensiero del generale nell’affrontare il problema
della messa in sicurezza delle scorie. In aprile, quando il generale è già
commissario, due deputati piacentini lo incontrano informalmente per chiedergli
come intenda affrontare l’emergenza. Sono preoccupati per il combustibile
nucleare che è affogato nelle piscine delel centrali del nord: Caorso e Trino.
Trattandosi di incontro informale non esiste alcun resoconto se non la
pubblicazione sul sito del deputato Foti (www.tommasofoti.it) di cosa abbia
detto il generale durante l’incontro. La notizia è datata 9 aprile 2003:
Entro la metà di giugno sarà indicato il luogo dove sorgerà il deposito
nazionale delle scorie radioattive italiane. Lo ha detto il presidente della
Sogin (la società che gestisce la dismissione delle ex centrali nucleari),
Carlo Jean, al termine di un’audizione informale alle commissioni Ambiente e
Industria della Camera. La spinta di accelerazione arriva dall’emergenza: « Le
misure antintrusione vanno bene se ci sono dieci persone – ha detto il generale
Jean – ma se arriva un battaglione non lo ferma nessuno ». Fantapolitica? Mica
tanto se consideriamo che stiamo parlando, per dirla sempre con parole dell’ex
responsabile della sicurezza di Francesco Cossiga, « di materiale nucleare e
non di noccioline ». Presenti i due parlamentari piacentini Tommaso Foti (An) e
Massimo Polledri (Lega Nord). « Dall’audizione – riferisce Foti – emerge il
concreto impegno che si sta profondendo per trasferire da Caorso il
combustibile ospitato nelle piscine ». « Il fatto che per i primi mesi del 2004
gli amministratori di Sogin contino di disporre dei cask necessari per lì
collocare il combustibile irraggiato – continua il parlamentare di Alleanza
Nazionale – costituisce la migliore testimonianza della volontà da parte dei
rappresentanti della Sogin di alleggerire Caorso da una presenza che dura da
alcuni anni e che eufemisticamente potremmo definire ingombrante ». « Quanto
poi al luogo ove allocare i detti cask – aggiunge l’onorevole Foti – è emerso
chiaramente nel corso dell’audizione che – non appena avrà a disposizione un
sito, che non potrà essere Caorso, né altra area ubicata in provincia di
Piacenza – la Sogin potrà allestire in sei mesi un deposito provvisorio. Per
detto sito è emersa la preferenza del Commissario Jean di potere disporre di
un’area di proprietà dell’autorità militare ». « Il deposito – ha ribadito
l’onorevole Massimo Polledri – sarà provvisorio e vi andranno i cask che sono a
prova di treno ». « Poi – prosegue Polledri – ci sono varie ipotesi su cosa
fare del materiale nucleare: resta in piedi la destinazione Russia ma si è
parlato anche del Kazakistan. Soluzioni che ovviamente saranno prese
nell’ambito di accordi globali. È evidente che l’emergenza sicurezza sta
accelerando il processo di dismissione di Caorso permettendoci, è l’auspicio,
di recuperare il tempo perduto (dal 1995 dei 27 protocolli applicativi ne sono
stati fatti solo 3) ». Sul fronte sicurezza, assicura Polledri, si sta
lavorando molto. Per quanto riguarda la centrale di Caorso sono allo studio
diverse ipotesi: dispositivi per limitare la velocità degli automezzi, una
serie di misure per la protezione fisica degli impianti, per il controllo dei
bagagli, per rinforzare il cancello. Si punta alla videosorveglianza del
perimetro della centrale, al completamento della recinzione ed alla modifica
della portineria ».
Si scopre così che il problema non sono i
30.000 metri cubi di scorie da mettere in sicurezza. Il problema sono le
“poche” tonnellate di combustibile nucleare che quelli del nord non vogliono
più in casa.
L’appalto
per la sicurezza
I
siti sono al sicuro, aveva dichiarato il commissario delegato alla Commissione
Bicamerale il 23 febbraio e i servizi segreti non avevano notizie di possibili
attentati ai siti nucleari.
Nonostante ciò il commissario delegato con
le prime ordinanze ritiene “necessario adeguare gli impianti [...] a
predisposti standard di sicurezza rispondenti alla aggiornata situazione
internazionale”.
Ma se la sicurezza dei siti, lo aveva detto
il generale stesso mesi prima, è «al
livello di quello che abbiamo a Comiso intorno al deposito di armi nucleari»
perché adeguare quelle strutture?
Comunque sia Jean ordina alla SOGIN di
trovare una ditta che possa realizzare questo appalto, ponendo un punto fermo:
deve essere una società “in possesso dei necessari requisiti
tecnico-professionali, con preferenza tra quelli che sono risultati già
aggiudicatari in SOGIN Spa di attività analoghe”. Previa approvazione del
commissario delegato è chiaro.
Insomma l’azienda deve avere esperienza nel
settore della difesa fisica dei siti nucleari e aver già lavorato per la SOGIN.
Per tutto il 2003 non si saprà niente di
quello che sta facendo il commissario per quanto riguarda l’adeguamento della
sicurezza fisica dei siti. Le ordinanze saranno infatti un’orgia di omissis per non far sapere a Bill Laden
cosa si stesse facendo.
Nel 2004 però qualche informazione emerge.
L’appalto è stato affidato ad un azienda controllata da Finmeccanica. Si tratta
della MARCONI SELENIA COMUNICATIONS, una società specializzata in Information
Technology, che, sino al 2003, lavora nel campo della “produzione e vendita di
sistemi, apparati, congegni, macchinari e loro parti, prestazioni di servizi
nel campo elettronico, elettrico, elettro-ottico”.
Banalmente potremmo definirla una società che opera nel campo della “difesa
logica”. La società, in una sua presentazione cartacea, parla però
esplicitamente della SOGIN e di come le abbia fornito “Impianti di
anti-intrusione, videosorveglianza e controllo accessi per i siti”; oltre ad
aver realizzato una “rete di comunicazione sicura tra le varie sedi di SOGIN”.
Che si tratti del famoso adeguamento
richiesto dal commissario lo dimostra il fatto che le stesse voci compaiono sui
cronoprogrammi che il commissario delegato deve compilare per informare le
regioni sui lavori che sta realizzando.
Come può aver fornito un servizio di
protezione fisica un’azienda che lavora nel campo della protezione digitale? La
risposta è in una operazione che la MARCONI fa il 16 settembre 2003. Si tratta
dell’acquisto dell’80% delel quote di un’azienda romana: la ELECTRON ITALIA.
Quest’azienda ha come oggetto sociale la “progettazione, costruzione,
esecuzione, collaudo [...] di impianti elettrici » e progettazione, costruzione
[...] di impianti di forza motrice, di sorveglianza, di telesegnalazioni, di
sicurezza, di antifurto, di antirapina”.
Il fatto interessante è che lo stesso giorno
che la Marconi acquisisce la maggioranza della ELECTRON, questa cambia ragione
sociale diventando un colosso delle costruzioni con ben 21 diverse tipologie di
lavoro: “costruzioni di moli”, realizzazione di gallerie e ponti”, “possibilità
di fare scavi archeologici”, di “costruire dighe oltre chiaramente alla
“installazioni di apparati di sicurezza”. Insomma se il 15 settembre la
ELECTRON costruiva e installava cabine elettriche e apparati di
videosorveglianza, il giorno dopo era un colosso delle infrastrutture; un
colosso che si integra perfettmente nella holding intrnazionale.
Come sancirà l’Autorità Garante per la
Concorrenza questa acquisizione permette “al gruppo FINMECCANICA, tramite la
propria controllata MARCONI SELENIA COMUNICATIONS già presente nella sicurezza
c.d. logica di entrare nel mercato della sicurezza c.d. fisica”.
Dai Cronoprogrammi del Commissario Delegato
si conoscono le date di inizio dei lavori di protezione fisica: tutti, tranne
uno, partono da settembre, cioè da quando la ELECTRON è di proprietà della
MARCONI. Coincidenza? La cosa interessante è che per un solo sito I lavori
iniziano ad aprile – si tratta del deposito Avogadro situato nel cntro Eurex di
Saluggia. Se la MARCONI può realizzare I lavori di protezione fisica solo da
settembre, chi ha realizzato quelli per l’Avogadro? Se la MARCONI prima di
settembre del 2003 non poteva realizzare l’appalto voluto dal Commissario come
può rispondere alle richieste fatte dallo stesso Commissario di trovare
un’azienda che fosse “in possesso dei necessari requisiti
tecnico-professionali?”
Risposte non ne abbiamo. Possiamo solo
rilevare una coincidenza: che molti dei protagonisti di quest storia si
conoscono o hanno qualcosa in comune. Per esempio che nel 2003 erano iscritti
ad una fondazione chiamata « Fondazione Liberal », una think tank culturale fondata nel 1985 dall’allora deputato
socialista Ferdinando Adornato, nel 2003 esponente di Forza Italia.
Una fondazione che dal 2000, come dice la
pagina di presentazione del sito internet “ha
accentuato il suo carattere politico-culturale nell’intento di esplorare le
nuove frontiere del pensiero e dell’azine liberale, in contrapposizione al
pensiero socialista e socialdemocratico”. Tra i suoi appuntamenti annuali più
importanti? Quello sulla “discussione fra intellettuali e politici sul progetto
politico della Casa delle Libertà”.
Chi è iscritto alla fondazione? Nel 2003 è
iscritto il generale Carlo Jean, presidente di SOGIN e commissario delegato per
la sicurezza nucleare, cioè il titolare della commessa per la sicurezza dei
siti. Nel 2003 è iscritto l’ammiraglio Guido Venturoni, ovvero il presidente
della Marconi Selenia Communications, l’azienda cui il generale ha affidato
l’appalto. Sia Jean sia Venturoni poi sono anche nel consiglio scientifico
della fondazione e ambedue scrivono per una rivista della fondazione da diversi
anni. Si conoscono forse? Nel 2003 è iscritto alla fondazione anche l’on.
Giulio Tremonti che, come ministro dell’economia, è il proprietario di SOGIN ed
è anche colui che ha scelto il generale Jean come presidente di quella società.
Nel 2003 è iscritto alla fondazione LIBERAL anche l’ing. Pier Francesco
Guarguaglini, ovvero il presidente e amministratore di Finmeccanica, l’holding
industriale italiana più importante d’Italia, scelto dal governo Berlusconi nel
2002. Se si continua a leggere la lista degli iscritti non si può non notare la
forte presenza di militari: il generale Mario Arpino, il generale Vincenzo
Camporini ed il generale Carlo Finizio che insieme al generale Jean e
all’ammiraglio Venturoni fanno parte di un circolo chiamato «Difesa 2000».
Nel 2006 un deputato dei DS, l’Onorevole
Aleandro Longhi, presenta un’interrogazione scritta al
governo Berlusconi chiedendo se «i lavori
relativi alle ordinanze [per l’adeguamento della sicurezza dei siti] siano
stati affidati attraverso gare pubbliche o assegnati direttamente alle imprese
a trattativa diretta, se essi siano stati adeguatamente motivati e
successivamente confortati dall’inizio immediato dei lavori stessi, come
previsto da un’emergenza; se risulti vero che circa l’80% dei lavori siano
stati assegnati in maniera diretta, con appalti prescritti dal Commissario
delegato, sempre alla stessa società del gruppo Finmeccanica e che questa sia
controllata da esponenti della Casa delle Libertà». Non ottenne risposta.
Dal gennaio del 2007, cioè dal primo giorno
dopo la fine dell’emergenza (31 dicembre 2006) dell’appalto per la sicurezza
dei siti non si sa più nulla. Le ultime informazioni le possiamo avere leggendo
uno degli ultimi cronoprogramma del Commissario, quello di marzo 2006, dove si
trova scritto come le attività ancora in fase di ultimazione riguardino “i
provvedimenti di miglioramento della protezione fisica (sia in termini di
barriere anti-intrusione e di reti di monitoraggio, sia in termini di
aggiornamento dei Piani di Protezione Fisica)”e “la videosorveglianza in tempo
reale e il collegamento fra i vari siti SOGIN e le autorità di sicurezza (a
seconda dei casi, Questure, Prefetture o Guardia di Finanza)”.
Non servono commenti se non per dire che
l’emergenza terrorismo ed il progetto per mettere in sicurezza i siti italiani
non sono serviti a niente, se non a spendere soldi di un finanziamento che pesa
sulla bolletta elettrica; solo tra il 2003 ed il 2004 per l’emergenza sono
stati spesi 10 milioni di euro.
Quanti ne siano stati spesi sino al 2006 non si sa.
Il
Deposito Nazionale... in Sardegna
Sin dall’inizio la decisione di smantellare
definitivamente le installazioni nucleari con il decommissioning accelerato
prevedeva, come tassello fondamentale, la costruzione di un deposito nazionale
per contenere in sicurezza i rifiuti pregressi e quelli che avrebbe prodotto lo
smantellamento. L’opzione era per la costruzione di un deposito ingegneristico
di superficie, come già ne esistono da decenni in altri paesi (Francia e Spagna
per rimanere in Europa), dove vengono stoccate le scorie di I e II categoria,
prodotte dall’industria nucleare e medica.
Il nostro problema era però quello di poter
contenere anche il combustibile esausto e le scorie di III categoria, che le
nazioni nucleari stoccano presso le centrali. Si era quindi ipotizzata la
realizzazione di due depositi: uno definitivo per le scorie meno pericolose,
compresi i rifiuti ospedalieri, ed uno temporaneo dove stoccare il combustibile
e le scorie di III categoria. Temporaneo perché ancora nessun paese ha trovato
il sistema di contenere per i 250.000 anni necessari quel residuo della
produzione elettronucleare, se non una soluzione che prende il nome di
“deposito geologico”e che gli stati atomici stanno studiando da decenni senza
risultati apprezzabili.
Deposito di superficie quindi. Lo diceva il
documento Bersani del 1999 e lo
dice anche l’ordinanza governativa del 7 marzo 2003 che assegna il compito di
trovarlo al Commissario delegato, il presidente di SOGIN generale Carlo Jean.
Un percorso che il generale deve affrontare “d’intesa con la Conferenza dei
presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano” per
arrivare alla “predisposizione di uno studio volto a definire le soluzioni
idonee a consentire la gestione centralizzata delle modalità di deposito dei
rifiuti radioattivi”.
Invece il generale farà tutto da solo,
istituendo una task force che
riferirà direttamente a lui e che, da aprile a giugno 2003, realizzerà un
progetto dal titolo “Descrizione sintetica della procedura per la selezione dei
siti idonei al deposito definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media
attività”
che avrebbe dovuto rappresentare il primo passo per la scelta del sito dove
costruire il deposito.
Qualcuno però ha già un’idea su quale sarà
la regione scelta per costruire il deposito. Per Marco Mostellino, giornalista
dell’Unione Sarda, è la sua Sardegna. E lo studio solo una foglia di fico con
il quale nascondere quella scelta. Non una semplice intuizione, ma il risultato
di una ricerca che lo ha portato ad entrare in possesso dello studio “segreto”
che doveva essere spedito alle regioni per essere poi discusso.
In effetti lo studio, oggi disponibile,
alcuni spunti li offre. Per esempio il fatto che il deposito può essere sia
“superficiale” che “sotterraneo”, a cinquanta metri di profondità per
l’esattezza, e che “ulteriori criteri di valutazione preferenziale tra i siti
candidati sono la coincidenza con aree demaniali (militari)”; è interessante
notare come la parola “militari” sia posta tra parentesi, quasi a nasconderla.
Quest’area dovrà comunque coprire un’estensione minima di “100 ettari di
superficie pianeggiante, senza soluzione di continuità (strade, ferrovia,
incisioni morfologiche ecc)”e le uniche esclusioni riguarderanno “le montagne
per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e
1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”. Nel
documento si afferma anche “che è preferibile un area poco popolata ed extraurbana”,
che si prevede “non avrà tendenza ad un cambiamento della popolazione residente
almeno per i prossimi 20 anni”. Sembra proprio l’identikit della Sardegna con i
suoi 66,6 abitanti per km2, quindi “poco popolata”, piena di grotte e caverne
ma sopratutto sede dei più grandi poligoni militari europei di tiro. Come
quello interforze di Salto di Quirra (13 mila ettari) o quello a Capo Teulada
(7.200 ettari) circondati da 75.000 ettari tra zopne di restrizione dello
spazio aereo e zone interdette alla navigazione. Quando poi il documento
individua in 20 abitanti per km2 la densità della popolazione che si dovrebbe
avere nella località dove sorgerà il deposito, dicendo anche che è un dato che
“corrisponde solo a 1/10 della media della densità di popolazione riferita a
tutto il territorio nazionale”, quindi molto difficile da trovare, come non
pensare alla Sardegna che proprio intorno ai poligoni militari presenta quei
valori di densità abitativa? Ci sono poi delle considerazioni della SOGIN che
rafforzano questa convinzione. Come le frasi dette dall’Amministratore della
SOGIN, l’ing. Bolognini, alla Commissione Bicamerale sui Rifiuti il 23 febbraio
2003: «Oggi non c’è assolutamente alcun
motivo per escludere a priori le isole, soprattutto quelle che hanno caratteristiche
geologiche e geotettoniche di stabilità, tanto è vero che, riprendendo l’esame
dei parametri tecnici necessari per identificare il sito, questa esclusione non
verrà più applicata». Infine le posizioni espresse da uno degli esperti
interpellati da SOGIN, il fisico Jeremy Whilock, vice presidente della Canadian
Nuclear Society, che sostiene come «I
terreni migliori per conservare le scorie nucleari sono quelli argillosi
[…] gli strati argillosi riscaldati
naturalmente che si trovano sotto le rocce vulcaniche della Sardegna».
Il 20 maggio 2003 Mostallino tutte queste
notizie le pubblica nel suo articolo dal titolo «Sardegna, pattumiera
radioattiva. L’Isola dice no» dove denuncia la volontà del governo di portare
lì le scorie. Si scatena un putiferio.
In parlamento i deputati presentano
interrogazioni a raffica. Il verde Turroni, il 29 maggio, chiede al governo se
sarà la Sardegna, come sembra dalle notizie diffuse, la sede del deposito
nazionale per le scorie. Una richiesta di chiarezza legittima, spiega
l’onorevole, perché «se il 15 giugno la
scelta dovesse cadere sulla Sardegna nessun organo istituzionale regionale
disporrebbe degli strumenti giuridici per opporsi a tale provvedimento ».
Il fatto è che, con i poteri di deroga di cui dispone il commissario per
gestire l’emergenza, nessuna istituzione regionale lo potrebbe fermare. Il 15
giugno è la volta dell’onorevole Antonello Soro che in un question time con il ministro Giovanardi, responsabile per i
Rapporti con il Parlamento, chiede se sia vero che il commissario delegato
abbia indicato la Sardegna come sito per il deposito per le scorie radioattive.
« il Governo conosce la reazione che
questa eventualità ha suscitato nell’isola – dice Soro – un’eccezionale mobilitazione delle
istituzioni e dei cittadini, con una coralità straordinaria, è stata messa in
atto. Chiediamo al Governo di escludere in Parlamento, con chiarezza e senza
riserve, questa ipotesi, per interrompere una spirale di conflitto fra lo Stato
e la Sardegna che non ha precedenti ». Quello che si chiede al governo
amico, visto che la Sardegna nel 2003 è una roccaforte della Cdl, è chiaraezza
visto che oltre ai sindaci esprime il Presidente di Regione,. Una
chiarezza che manca a Giovanardi, il quale, pur ribadendo che per il momento
non esiste alcun sito, risponde che « il
Governo naturalmente non è in grado di assicurare che il sito non verrà trovato
sul territorio nazionale, perché evidentemente da qualche parte esso dovrà
essere collocato ». « In sostanza
– conclude Giovanardi – si tratta di un
lavoro di carattere tecnico mirante all’individuazione di un numero limitato di
aree potenziali tra cui dovrà essere poi
esercitata una scelta che tenga in debito conto considerazioni di natura
socio-economica e politica con modalità che saranno determinate dal Governo [...].
Le grandi isole non sono state escluse a
priori perché le difficoltà di trasporto ed eventuali interferenze sul
trasporto via mare sono state giudicate fattori da considerarsi solo in una
fase successiva del processo di selezione come possibili criteri di preferenza
». Come dire che la prima scrematura si farà su tutto il territorio, poi si
scarteranno le isole e si procederà ad un’indagine più selettiva. Ma se è così,
perché non scartarle subito, coma aveva fatto anni prima l’Enea?
Lo studio è comunque respinto il 25 luglio
2003 quando i presidenti delle regioni si incontrano a Roma per valutarlo.
All’unanimità decidono che il generale non li ha informati sull’andamento dei
lavori e quindi quello studio non è valido. La loro richiesta è: ripartire da
capo. Si critica la forma.
La domanda da porsi è una sola: aveva
ragione Mostallino o il governo?
Ecco cosa dice il Commissario delegato il 6
dicembre 2004 al giornalista del Corriere della Sera, Franco Foresta Martin che
lo intervista sui fatti di Scanzano. Al lettore la risposta. « Prima di Scanzano – dice il generale – si era esplorata la possibilità della
Sardegna Nord Orientale e abbiamo avuto una specie di rivolta preventiva. Poi,
per evitare il ripetersi di una cosa del genere, ci siamo mossi con
discrezione, studiando la fattibilità del deposito geologico a Scanzano».
Il Deposito Nazionale... in Basilicata
« Preso
atto dell’indisponibilità della prescritta intesa con la Conferenza dei
Presidenti delle Regioni, nonché dell’accresciuta instabilità internazionale,
con il conseguente aumento dei rischi derivanti dal terrorismo, il Governo ha
ritenuto di dover assumere responsabilmente l’iniziativa volta a identificare
in tempi brevi un sito che, con il massimo livello possibile di sicurezza e
rispetto dell’ambiente, fosse idoneo ad ospitare un deposito che, pur destinato
in prima istanza al deposito definitivo dei rifiuti radioattivi di II
categoria, presentasse anche caratteristiche favorevoli ai fini del deposito definitivo
dei rifiuti di III categoria (deposito unico nazionale) ». Queste parole
sono scritte nella presentazione del secondo studio prodotto dalla task force
del Commissario delegato. Lui
ha fatto tutto bene. Sono le regioni che irresponsabilmente hanno detto no allo
studio.
Dal momento che il terrorismo incombe, il
governo ha ritenuto opportuno occuparsi personalmente, attraverso il suo
delegato, di trovare il sito. Sia chiaro che non c’è alcun atto formale in
questo senso. Quello che vale è quello che sta scritto all’articolo 1, comma 6
dell’ordinanza 3267 [quella che nomina il generale Jean Commissario il 7 marzo
2003] che specifica come “il Commissario delegato provvede, d’intesa con la
Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e
Bolzano, a porre in essere ogni iniziativa utile per la predisposizione di uno
studio volto a definire le soluzioni idonee a consentire la gestione
centralizzata delle modalità di deposito dei rifiuti radioattivi”. Insomma: non
c’è alcun atto formale che dica come il governo abbia chiesto al Commissario di
trovare il luogo più adatto ove costruire il deposito in luogo di studiare
“ogni iniziativa utile per la predisposizione di uno studio volto a definire le
soluzioni idonee”, né che questo deposito debba essere “geologico” invece che
di “superficie”.
Invece quello studio non sono indicherà il
luogo esatto dove costruire il Deposito Nazionale per le scorie rdioattive, ma
deciderà che sarà un “deposito geologico”, cioè situato a 700 metri sotto terra.
Ecco cosa disse il professor Maurizio Cumo,
ingengere nucleare e presidente della SOGIN dal 2000 al 2002, a proposito dei
depositi geologici e della loro definizione”
Laboratori
sperimentali sotterranei sono in funzione o in costruzione in Svizzera,
Francia, U.S.A, Germania, Regno Unito [...] Il primo deposito commerciale sarà
verosimilmente quello di Yucca Mountain, nel Nevada (U.S.A.) [...] La ricerca
di siti per un deposito definitivo di tipo geologico incontra attualmente
difficoltà ovunque, per cui diversi paesi prendono ormai in considerazione un
immagazzinamento provvisorio (interim storage) di lungo periodo (50÷100 anni)
per i rifiuti ad alta attività vetrificati e per i combustibili irraggiati. Il
concetto stesso di smaltimento geologico è in via di evoluzione, nel tentativo
di meglio fronteggiare i problemi di accettabilità: diversi progetti europei
prendono in considerazione attualmente la possibilità di recuperare i rifiuti
dal deposito per un periodo iniziale che va da cento a trecento anni. Ciò
comporta la predisposizione, anche per il deposito geologico, di barriere
artificiali durevoli, con soluzioni progettuali complesse”.
Eppure nell’agosto del 2003, per il governo
di centro destra e per il generale, la via era chiara: si doveva trovare in
Italia un deposito geologico. In pratica riuscire a are quello che da decenni
si sta cercando di fare nel resto del mondo. La task force del generale sembra
riuscire nell’intento. Dopo pochi mesi lo studio è pronto con tanto di sito
ideale: Scanzano Ionico e le miniere di salgemma sotto la piana di Terzo
Cavone. Una immense caverna piena di sale a a più di 700 metri di profondità.
Il luogo ideale dove sotterrare le scorie radioattive italiane; ma anche un
territorio poco popolato della più piccola e insignificante regione italiana:
la Basilicata.
Il posto giusto dove sistemare anche le
barre radioattive del nord.
Il 14 novembre del 2003 il governoBerlusconi
licenzia un decreto d’urgenza (Dl 413) che deciderà di costruire li il
“Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi […] opera di difesa militare dello
stato”. Pochi giorni e un’intera regione scende in piazza protestando per una
decisione che è stata imposta senza confrontarsi con quella regione.
La cosa strana è che lo studio invece di
essere pubblicizzato, per dimostrare la validità tecnica della scelta e
contrastare la rivolta è tenuto gelosamente nascosto.
Il 16 novembre la protesta si trasforma in
caso nazionale nel momento in cui se ne occupa la trasmissione « Che tempo che
fa » condotta da Fabio Fazio, su Rai 3. In studio il generale Carlo Jean, padre
del decreto, e in esterno la gente di Scanzano. La presentazione di Fazio del
generale è eloquente. Elencando le qualifiche di Jean ed i ruoli da lui
ricoperti, pone l’accento su quello militare chiedendo la ragione per cui sia
un generale a sovrintendere una funzione civile. « Perché no? » è la risposta lapidaria di Jean, come fosse la cosa
più naturale del mondo.
Quando poi Fazio porrà il problema dei
criteri della scelta, il generale risponderà che uno studio specifico gli ha
consentito la scelta del sito ideale. « Quindi
lo ha scelto lei? » domanda Fazio. « Certo,
grazie all’aiuto dei nostri scienziati che hanno contribuito a definire il sito
».
In collegamento dalle miniere di Monte
Cavone, a Scanzano, oltre alla popolazione a presidiare il sito, c’è il sindaco
Mario Altieri, in prima fila. Accanto a lui Pasquale Stigliani, promotore del
campo base che dal giorno stesso del decreto è stato costituito
sull’appezzamento più grande del terreno di proprietà della Sorim. Insieme a
loro Mario Tozzi, il geologo della trasmissione « Gaia ». Il primo a parlare è
proprio Tozzi che spiega come lo studio non sia stato fatto sul territorio ma
utilizzando materiale bibliografico, visto che nessuno ha visto trivelle e
carotaggi, né alcun movimento che facesse intendere qualche studio in situ. Il
generale risponde serafico che gli studi sono stati fatti su documenti
inoppugnabili, con l’avvallo di scienziati preparati. Comunque rassicura che le
ricerche in loco sarebbero state compiute a seguito dell’individuazione del
sito; ricerche che sarebbero durate un anno.
È a questo punto che interviene Altieri, il
sindaco di Scanzano, in difesa dei suoi cittdini.. Rivela che il generale lo ha
incontrato e come sia stato ingannato. « Fortunatamente
l’ho presentato anche ai miei collaboratori. Io pensavo di incontrare il
responsabile dell’Itrec per parlare dei posti di lavoro ». Il generale
rimane imperturbabile e risponde: « Ci sarà stato un qui pro quo ». Una
risposta che è diventata una battuta per la gente di Scanzano, considerando che
nessuno di loro lavora all’Itrec e
quindi non sicapisce di quali posti di lavoro parlasse il sindaco.
Il fatto è che quando gli abitanti hanno
saputo della decisione governativa dal Tg Regionale si sono precipitati tutti
al Municipio a cercare il sindaco. Altieri però non c’era. Era a Roma. Questo
insieme al fatto che qualche settimana prima alcune famiglie della zona
avessere visto il Sindaco mostrare la piana di Terzo Cavone a persone “straniere”
aveva fatto pensare che Altieri in qualche modo centrasse nella scelta del
governo. Ma ora è in prima fila e dice di essere stato ingannato dal generale.
Sostanzialmente l’ipotesi era quella di
portare a Scanzano quei rifiuti che si potevano spostare, principalmente le
barre di combustibile stoccate nelle regioni del nord.
Lo dice lo stesso decreto 412 all’articolo 2
comma 1, punto b dove si legge che “Per l’attuazione di tutti gli interventi e
le iniziative necessari [...] un Commissario straordinario [...] in deroga alla
normativa vigente, provvede [...] alla messa in sicurezza, d’intesa con il
Ministero dell’Interno e con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio, di strutture temporanee da realizzare sullo stesso sito dei rifiuti
radioattivi ora distribuiti sul territorio nazionale, rilasciando le relative
licenze”. Altro che aspettare un anno!
E poi lo aveva promesso a giugno ai deputati
piacentini Foti e Polledri che « non
appena avrà a disposizione un sito, che non potrà essere Caorso, né altra area
ubicata in provincia di Piacenza la Sogin potrà allestire in sei mesi un
deposito provvisorio. Per detto sito è emersa la preferenza del Commissario
Jean di potere disporre di un’area di proprietà dell’autorità militare ».
Il 25 novembre 2003 la situazione è
incandescente. In Parlamento il governo sta decidendo se eliminare il nome di
Scanzano dal decreto mantre non solo la Basilicata, ma tutto il sud è in
rivolta; una rivolta trasversale che non conosce appartenenze. Mentre il Parlamento
discute il decreto, la VIII Commissione chiede al generale di spiegare le
ragioni della scelta di Scanzano, quindi di spiegare lo studio fatto e, al
fisico Carlo Rubbia, di esprimere il proprio parere su quello studio. Sono
audizioni informali ma i giornalisti presenti ne riportano ampi stralci.
Il primo ad essere ascoltato è il generale
che si presenta con il voluminoso studio sotto il braccio. Una copia ce l’hanno
anche i deputati. Il generale inizia il suo intervento spiegando come il sito
geologico di Scanzano Jonico possa senz’altro essere identificato come la « soluzione ottimale sotto il profilo della
sicurezza e della salvaguardia ambientale ». Il generale spiega come, per
arrivare alla scelta finale ci si sia basati « su uno studio condotto da un gruppo di lavoro SOGIN con la
partecipazione di esperti di altre istituzioni che ha esaminato varie opzioni
di deposito », ma che la presenza a Scanzano di una formazione geologica « estremamente stabile costituita da un
giacimento di salgemma dello spessore medio di 150-200 metri per una estensione
di oltre 10 chilometri quadrati, protetto da uno strato di argilla dello
spessore di oltre 700 metri » ha portato gli esperti a definirlo come il
luogo ideale; un vero e proprio colpo di fortuna, sottolinea il generale,
perché un sito simile c’è solo in America, nel New Mexico, dove le forze armate
di quel paese hanno realizzato un deposito profondo, denominato Wipp, per
stoccare le testate nucleari contenenti plutonio. Inoltre la soluzione tecnica
del deposito geologico « riduce a zero
l’impatto radiologico sulla popolazione e sull’ambiente, superando nel senso
della sicurezza anche i limiti di esposizione raccomandati in ambito
internazionale e nazionale ».
Il giorno seguente il prof. Rubbia evidenzia
le incongruenze dello studio, anche se, dice Rubbia, la sua relazione non può
essere completa in quanto lo studio gli è stato consegnato dalla SOGIN solo la
sera precedente.
Rubbia distrugge lo studio. La sua relazione
è di 19 pagine ma basta a ridicolizzare uno studio di 315 pagine.
Il generale sosteneva che lo studio muoveva
dalle indicazioni fornite dall’Enea nel 1997? Non è vero, dice Rubbia, che
specifica come lo studio della task force Enea, redatto «per conto della protezione civile », avesse come scopo quello di
individuare le aree idonee ad ospitare un deposito superficiale per le scorie
di seconda categoria e che quindi « la
selezione di quest’area in Basilicata non è in alcun modo correlabile al lavoro
svolto dalla task force dell’Enea ». Lo studio poi «non presenta solide basi scientifiche e non rientra in alcuna logica
gestionale consolidata ».
La considerazione dello studio secondo il
quale «il sito di Scanzano verrebbe
utilizzato nell’immediato per lo smaltimento dei rifiuti di seconda categoria
e, contemporaneamente, come laboratorio per indagini sitologiche più
approfondite, anche mediante l’installazione di un laboratorio sotterraneo, per
la verifica dell’idoneità ad ospitare anche la terza categoria ed i
combustibili irraggiati» non era condivisibile. Secondo Rubbia, le
esperienze in altri Paesi evidenziano come «le
fasi di indagini» sui siti «debbano
necessariamente precedere qualsiasi messa a dimora di rifiuti radioattivi di
qualsiasi categoria».
Il presidente dell’Enea rimarca poi il fatto
che se il sito di Scanzano non dovesse rivelarsi idoneo ad accogliere le scorie
di terza categoria, ma solo quelle di seconda, «risulterebbe sproporzionato allo scopo». Da tutto ciò discende,
secondo il fisico, «l’opportunità di
portare a termine senza indugio e in maniera efficace i programmi in corso sui
rispettivi siti fi- nalizzati ad aumentare i livelli di sicurezza attuali».
Il professore descrive poi la situazione
attuale per quanto riguarda il problema portando esempi di altri stati europei
che hanno in attività solo depositi di superficie, ricordando come le scorie di
III categoria, le più pericolose, ed il combustibile esausto siano stoccati
nelle centrali stesse. Il solo deposito geologico che, in quegli anni, si
ipotizzava potesse en- trare in funzione era quello delle Yucca Mountains in
Nevada, deposito in fase di realizzazione tra contestazioni di ordine
scientifico ed antropologico. Quello del New Mexico, essendo un’installazione
militare, non è ovviamente ben conosciuto a causa del segreto militare.
Il 24 dicembre 2003 il decreto 413 diventa
la legge 368/03. Il nome di Scanzano Ionico è cancellato e Il deposito diventa
il Deposito Nazionale “riservato ai soli rifiuti di III categoria” (scompare la
II cioè la parte più rilevante delle scorie da sistemare). Il Deposito sarà
“individuato entro un anno […] dal Commissario straordinario […] previa intesa
in sede di Conferenza unificata” (con l’accordo di tutte le regioni) e per la
ricercsa del sito il Commissario straordinario si avvarrà di una commissione
“con compiti di valutazione e di alta vigilanza per gli aspetti
tecnico-scientifici”. Qual’ora l’intesa non sia raggiunta “l’individuazione
definitive del sito è adottata con decreto del Presidente del Consiglio” entro
il 31 dicembre 2004. Il Deposito resterà “opera di difesa militare di proprietà
dello stato”.
Il 1 gennaio 2009 secondo quella legge il
Deposito dovrebbe essere operativo. Invece non c’é nemmeno il sito perché I
governi che si sono succeduti si sono defilati, fingendo che il problema non
esistesse.
Le scorie radioattive sono ancora nei siti
del nord. Si tratta di strutture costruite negli anni Sessanta non più in grado
di reggere, quindi il deposito nazionale per le scorie e i rifiuti radioattivi
dovrà essere costruito.
Scanzano
scelta tecnica o politica?
Chi ha scelto Scanzano Ionico? Il governo?
Gli scienziati del generale? Il generale? Una risposta sicura non l’avremo mai.
Certo è che le versioni a seconda di chi le da sono differenti.
Ecco cosa dissero sulla scelta di Scanzano
due protagonisti di quella storia: il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli ed
il commissario delegato, il generale Carlo Jean. Sopratutto è interessante
leggere come giustificarono il comma b dell’articolo 2 che avrebbe permesso di
portare a Scanzano “subito” le scorie trasportabili; per esempio le barre di
combustibile nucleare affogato nelle piscine degli impianti del nord: Caorso,
Trino e Saluggia.
Gli stralci sono estratti dai resoconti
stenografici delle audizioni che Matteoli e Jean tennero presso la «Commissione
Bicamerale d’Inchiesta sul Ciclo dei Rifiuti» che li interrogò tra il 2 ed il 3
dicembre per “acquisire dati ed elementi informativi in merito alle
problematiche, alle prospettive ed alla tipologia, nonché alla relativa
localizzazione territoriale del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi,
anche alla luce delle recenti iniziative del Governo”, come recita lo
stenografico di quella riunione.
In sostanza quei deputati volevano sapere
perché era stato scelto Scanzano se poi lo si era eliminato dal decreto.
Ecco cosa dice Matteoli ascoltato il 2
dicembre.
«Alla
Camera, il 20 novembre, le critiche sulla scelta del Governo si sono appuntate
sul fatto di avere varato un decreto alla chetichella, e mi ha particolarmente
offeso il fatto che qualcuno abbia detto cavalcando l'emotività dei lutti di
Nassiriya. Capisco che, nei momenti di massima polemica, ma anche di stress, si
possono dire cose di questo tipo, ma mi sembrano da rigettare a colui che le ha
dette. Che l'attuale situazione dei nostri depositi temporanei sia rischiosa lo
affermava già in tempi non sospetti il premio Nobel Rubbia e lo confermano oggi
le proteste delle popolazioni dei centri interessati (Caorso, Casaccia e così
via; non ne elenco altri per non dare adito ad ulteriori motivi di polemica)e
lo esplicita il commissario, generale Jean. […] I risultati di tale studio [quello che individuava il sito in
Sardegna – n.d.r.] in data 17 giugno sono
stati trasmessi alla Conferenza dei presidenti delle regioni, con l'intento di
raggiungere un'intesa. Il 24 luglio tale documentazione veniva restituita con
la motivazione che della cosa si dovesse interessare il Governo. Di fatto, in
quel momento l'auspicata intesa veniva in qualche modo rifiutata.
Conseguentemente, il Ministero delle attività produttive, di concerto con il
ministro dell'ambiente e tutela del territorio, hanno dato l'incarico al
presidente della Sogin di approfondire l'indagine fino all'indicazione del sito
ottimale.»
Ma la parte interessante arriva quando gli
viene chiesto di commentare il comma b) dell’articolo 2 dove si dava la
possibilità di portare temporaneamente a Scanzano le scorie radiaottive ancor
prima di fare qualunque valutazione ambientale. «Voglio ricordare, più a me stesso che a chi ha la cortesia di ascoltarmi,
che l'iniziativa andrà sottoposta alla VIA, ma doveva essere sottoposta alla
VIA anche la precedente, e coloro che hanno identificato nel decreto la
decisione finale… E' vero che c'era il punto b) dell'articolo 2, ma abbiamo
detto che si era trattato di una specie di incidente di percorso e che
avremmo eliminato la possibilità di portare le scorie in quel sito
immediatamente, anche se quello rappresentava la fine del percorso.»
Allora fu il governo a chiedere
“informalmente” al generale di trovare il sito e quel comma una semplice
svista, un incidente?. E allora perché si dice che “quello rappresentava la
fine del percorso?”
Il giorno dopo, il 3 dicembre, è la volta
del commissario delegato, il generale Carlo Jean.
«In
quella riunione per decidere cosa fare o non fare - in cui sarebbe emersa
l'idea di inserire la Sardegna e la Sicilia nell'elenco delle zone possibili
per i depositi previste nello studio, con i criteri e le metodologie da
sottoporre ai presidenti delle regioni, con la conseguente sollevazione che c'è
stata, simile a quella avvenuta a Scanzano - abbiamo valutato le varie
possibilità. La gente è certamente preoccupata di un deposito con i bunker
fuori terra, ha paura delle radiazioni, e si è pensato che mettendo il
materiale in profondità la preoccupazione e l'emozione dell'opinione pubblica
sarebbero state inferiori. Ne ero persuaso, ma mi sono sbagliato. […] Questo è un documento interno Sogin, anche
come forma è piuttosto «sportivo», le cose vengono dette in modo chiaro sulle
osservazioni che sono state fatte sull'idoneità del sito, che non vuol dire
partire in quarta. Nessuno di noi ha mai pensato di fare il sito provvisorio di
Scanzano; questo è stato deciso in una riunione di ministri tenutasi il 10
novembre, richiesta dai ministri delle attività produttive e dell'ambiente e
tutela del territorio al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. In tale
riunione sono state esposte le nostre conclusioni, che sono state accettate in
quanto tenacemente sostenute dai due ministry noi abbiamo sottolineato che i
depositi del materiale sanitario che sono sparsi in giro o quelli
dell'industria vanno messi quanto prima in sicurezza.[…] è stato individuato il sito di Scanzano per
la sistemazione di questi depositi provvisori, mentre a mio parere di depositi
provvisori devono essercene quattro o cinque in Italia: a nord-est, a
nord-ovest, al centro, al centro-sud e nelle isole. Questa è la mia opinione.»
Allora la scelta di Scanzano è stata di
Matteoli e Marzano e non del generale e dei suoi scienziati? Allora il generale
durante la trasmissione «Che Tempo che Fa» non diceva la verità?
E ancora: il comma b) non era una svista,
come diceva Matteoli, ma una scelta precisa dei due ministri per portare li le scorie sanitarie? Allora il
generale mentiva quando ad aprile promette ai due deputati, Foti e Polledri,
che «non appena avrà a disposizione un
sito, che non potrà essere Caorso, né altra area ubicata in provincia di
Piacenza - la Sogin potrà allestire in sei mesi un deposito provvisorio»
per le barre di combustibile?
Il
riprocessamento del combustibile nucleare
Eliminato il nome di Scanzano dalla legge
386, rimane il problema della sistemazione del combustibile nucleare che i
comuni del nord non vogliono più. Che la legge non sarà rispettata è evidente a
giugno 2004; non si sono ancora trovate le 12 persone per formare il comitato
ne è stato nominato alcun “commissario straordinario”. E’ anche vero che il
governo non vuole ritrovarsi con un’altra regione in rivolta. E poi le acque si
stanno calmando: perché agitarle di nuovo?
Si decide quindi di mandare all’estero quel
combustibile. Una scelta che va bene al governo, ma anche alle regioni.
La possibilità è data dalla normativa
internazionale che consente lo scambio temporaneo tra stato e stato del solo
combustibile nucleare ai fini del “riprocessamento”, cioè del recupero di
uranio e plutonio ancora utile per fabbricare altro combustibile. Essendo
questo un processo che in Europa solo due nazioni sono in grado di effettuare,
Francia e Inghilterra, ecco la possibilità di inviare loro le barre nucleari
consumate, farsele riprocessare per poi riprendersi sia l’uranio, sia il
plutonio recuperato e naturalmente anche le scorie residuali. La domanda è
semplice: se l’Italia non ha più centrali attive cosa se ne fa dell’uranio
recuperato? A questa domanda nessun governo ha ancora risposto anche se dal
2007 diversi treni pieni di barre nucleari sono già partiti verso la Francia.
La storia inizia il 2 dicembre 2004 con il
ministro delle attività produttive, Antonio Marzano (Forza Italia), che abroga
l’ordinanza che da maggio 2001 indirizzava le attività di SOGIN proponendone
una nuova. Il testo sarà identico al precedente, tranne in un punto. Dove il
vecchio testo diceva che la SOGIN avrebbe immagazzinato “il restante
combustibile irraggiato in appositi contenitori a secco nei siti delle centrali
dove sono allocati in attesa di trasferimento al deposito nazionale”, quello
nuovo dice che “per quanto riguarda il combustibile nucleare irraggiato
esistente presso le centrali nucleari e i siti di stoccaggio nazionali si
individua la possibilità di una sua esportazione temporanea ai fini del
trattamento e riprocessamento”.
Una settimana dopo, il 16 dicembre 2004, il
commissario delegato per l’emergenza, il gen. Carlo Jean, licenzia un ordinanza
che dice alla SOGIN del presidente Carlo Jean di procedere “alla stipulazione
dei necessari atti contrattuali al fine di effettuare nei tempi più rapidi lo
svuotamento completo delle piscine degli impianti di Caorso, Trino, Avogadro ed
EUREX dal combustibile irraggiato, dando così inizio alle operazioni di invio
al riprocessamento in Francia e/o Gran Bretagna”; c’é una clausola: “il
dilazionamento del trasferimento in Italia dei rifiuti vetrificati originati da
tale riprocessamento fino a quando non sarà disponibile un deposito nazionale
o, comunque, per almeno 20 anni”. L’idea è quella di mandare a fare un giro per
l’Europa le barre radioattive per almeno 20 anni, lasciando a quelli che
verranno la soluzione del problema.
L’accordo per inviare finalmente le barre
radioattive all’estero è concluso solo nel novembre del 2006
quando il ministro delle attività produttive, l’on. Pierluigi Bersani (DS), già
ministro nel 1999 e padre della SOGIN, firma con il suo omologo francese, un
accordo intergovernativo che prevede l’invio in Francia del combustibile
nucleare per essere riprocessato. Costo dell’operazione 255 milioni di euro e
assoluta certezza che l’Italia si riprenderà, oltre alle scorie radioattive
prodotte, anche l’uranio ed il plutonio recuperato. La certezza è data dalle
clausole dell’accordo dove si trova scritto che “il governo italiano si impegna
a prendere tutte le misure per attivare il procedimento di autorizzazione,
costruzione e messa in opera di un sito di stoccaggio o di deposito conforme ad
accogliere i ri- fiuti radioattivi. L’Italia, inoltre, si impegna ad informare
annualmente il governo francese sull’avanzamento di queste attività. Il governo
italiano s’impegna poi ad assicurare il rispetto dei termini stabiliti nel
presente Accordo, delle procedure di autorizzazioni, dei permessi e delle
licenze necessarie per la spedizione in Italia dei rifiuti radioattivi in un
centro di stoccaggio o un deposito conforme alle regole di sicurezza in vigore”
Entro il 31 dicembre 2020 l’Italia dovrà
avere per forza un deposito per custodire scorie radioattive visto che “le due
Parti s’impegnano a stabilire prima del 31 dicembre 2015 il calendario
previsionale ed entro il 31 dicembre 2018 il calendario definito del loro rientro,
che dovrà avere luogo tra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2025 “.
Un accordo capestro che oggi fa gioire i
comuni del nord che vedono partire le loro scorie radioattive più pericolose,
ma che tra non molto li farà arrabbiare perché è pacifico che, senza deposito,
quelle scorie ritorneranno da dove sono partite.
Eppure la soluzione per mettere in sicurezza
il combustibile era già stata trovata nel 2001 dalla stessa SOGIN che però non
era guidata da un generale ma da un ingegnere nucleare, Raffaello De Felice. Lo
rivela l’audizione che l’ingegnere fece il 15 febbraio 2001 alla VIII
Commissione Ambiente della Camera in merito alla sicurezza dei siti nucleari.
Il problema non cambia: allora come ora si
deve trovare come sistemare il combustibile nucleare, quelle barre affogate da
troppo tempo nelle vecchie piscine delle centrali del nord. L’attenzione è
focalizzata sulle barre radioattive stoccate nella centrale nucleare “Enrico
Fermi” di Trino e nel deposito Avogadro, un vecchio reattore di ricerca della
Fiat costruito nel centro Eurex a Saluggia, un paese a 100 km da Torino famoso
per essere il comune che detiene l’80% delle scorie radioattive italiane.
Per l’ingegnere la soluzione è sistemare
quel combustibile in cask, contenitori in acciaio alti 4 metri, larghi poco
meno di 2 per un peso di 60 tonnellate al cui interno «vi è un cestello in cui sono inseriti gli elementi combustibili».
Il cilindro è poi sigillato con due tappi d’acciaio. A questo punto il cilindro
«diventa un oggetto all’interno del quale
c’è un’attività spaventosa, mentre all’esterno è completamente convenzionale,
quindi può essere preso, sollevato e trasportato, quando sarà disponibile, nel
deposito». Il costo dell’operazione sarebbe stato di 20 miliardi di lire
(circa 11 milioni di euro in luogo dei 255 milioni che servono per inviarlo in
Francia) e le operazioni sembra fossero già state avviate considerato che, dice
De Felice, il contratto per la costruzione dei cask era stato formalizzato il 1
giugno 2000 ed «assegnato alla ditta
tedesca GNB, una della più quali- ficate per questo tipo di componenti (è
l’unico fornitore degli esercenti tedeschi, qualificato anche negli USA ed in
vari altri Paesi, sia europei che
extraeuropei) »; un’azienda che « previa
autorizzazione da parte delle nostre autorità di controllo » fornirà i
contenitori « con cadenza di uno al mese,
a partire da dicembre 2002: i primi 3 saranno adibiti allo stoccaggio del
combustibile del sito di Trino, mentre i successivi saranno utilizzati per il
combustibile immagazzinato a Saluggia (i relativi trasporti sono previsti tra
marzo e settembre 2003) ».
L’ingegnere aveva anche trovato il posto
dove metterli. Nella centrale nucleare di Trino, a 22 km da Saluggia e dal
centro Eurex, «una manovra che si può
considerare prevista anche nel normale esercizio, nel senso che nei paesi in
cui ci sono impianti in esercizio, sia in Europa sia negli Stati Uniti, si usa
questo sistema per immagazzinare il combustibile, in attesa che un giorno siano
disponibili depositi definitivi ».
Se si considera il fatto che per sistemare a
secco tutto il combustibile ereditato sarebbero serviti 31 cask e che non ci
sarebbe stato bisogno di costruire nuovi depositi, con una spesa di circa 32
milioni di euro già nel 2003 si sarebbe risolto almeno il problema della
sistemazione del combustibile irraggiato. Invece nel 2008 se ne spenderanno 255
(di milioni) spostando semplicemente il problema al 2020-2025.
La coincidenza vuole che il primo cask debba
arrivare a novembre del 2002, proprio quando si insedia il nuovo CdA guidato
dal generale Jean. E sui cask casca il silenzio.
Eppure la strategia è sempre quella dello
stoccaggio a secco e i cask servono.
Se il progetto Scanzano fosse andato in
porto, i cask sarebbero serviti per trasportare le scorie.
Solo nel 2004 sapremo perché quei cask non
sono arrivati. «La GNB non ha ancora
ricevuto da SOGIN l’autorizzazione alla costruzione dei manufatti in quanto si
è in attesa della validazione APAT ai fini della resistenza alla caduta aereo
la cui dimostrazione fornita da GNB non è stata ritenuta sufficiente » dice
il generale Jean nella relazione che deve mettere a confronto la nuova
strategia, l’invio all’estero per il riprocessamento, con la vecchia, ovvero lo
stoccaggio a secco. La
versione dell’Apat non la sappiamo. Certo è che il 17 dicembre del 2007 le
prime barre sono partite per la Francia e sono state inserite in dei cask.
Oggi solo una piccola parte del combustibile
è stata trasferita in Francia: poche tonnellate che il 17 dicembre 2007 sono
partite dalla stazione di Caorso. Ma appena i treni entrano nello stabilimento
di Le Hague, in Normandia, dove è collocato l’impianto per il
“riprocessamento’, l’Autorità di Controllo Nucleare francese (ASN), che
controlla il trasporto delle scorie radioattive sul territorio, emette un
comunicato che potrebbe rovinare da subito i piani italiani. Esaminando il
contratto pone in evidenza come i tempi per l’invio del materiale, dal 2007 al
2015, e quelli per il suo ritorno in Italia, dal 2020 al 2025, sono “tecnicamente
troppo lunghi”. Per la ASN il combustibile può essere inviato molto più
velocemente e lo stesso riprocessamento può essere fatto in breve tempo.
Il fatto è che quando le barre sono
scaricate dal reattore sono calde (la temperatura che raggiunge il nocciolo
nucleare è di 300 °C) e le barre devono stare per diverso tempo nelle piscine
di decadimento prima di poter essere ritrattate; ma le nostre che per 20 anni
stanno in piscina non hanno problemi di sorta e possono essere ritrattate
subito. Ma l’accordo è politico, non tecnico e se I parametric di sicurezza
sono rispettati la ASN non può fare niente.
Secondo i dati della SOGIN le prime barre a
partire saranno quelle di Caorso, seguite da quelle di Trino e Saluggia. Sembra
strano ma partono prima quelle che sono più al sicuro (nella piscina della
centrale Arturo di Caorso) e per ultime quelle che sono affogate in una piscina
a pochi metri dagli argini di un fiume (il deposito Avogadro a Saluggia). Il
fatto è che quelle barre nucleari sono speciali, perché oltre all’uranio
contengono plutonio mentre quelle affogate nella piscina della centrale Arturo
contengono solo uranio. Il combustibile MOX – questo il nome tecnico delle
barre dell’Eurex – necessita di un permesso speciale della ASN; mentre per il
combustibile UOX – questo il nome tecnico delle barre di Caorso – non ci sono
problemi.
Il contratto va avanti considerato che tra
il 1 gennaio ed il 15 giugno di quest’anno l’Autorità per l’Energia Elettrica
ed il Gas, l’ente indipendente che controlla il mercato elettrico ed autorizza
i finanziamenti alla SOGIN, ha riconosciuto 250 milioni a quella società “a
valere sul Conto per il finanziamento delle attività nucleari residue, [...] in
relazione alle esigenze finanziarie straordinarie connesse al riprocessamento
all’estero del combustibile nucleare irraggiato”.
Il
taglio delle tasse
Siamo a novembre del 2004 e il governo di
centrodestra vuole portare a fine il contratto stipulato con gli italiani. La
maggioranza decide che ci sono le possibilità per attuare la riforma più
importante: il taglio delle tasse. Era una promessa fatta in campagna
elettorale, uno dei punti più importanti del programma e non mantenerla sarebbe
costato molto, in termini di immagine, nell’imminenza delle elezioni politiche.
I soldi che sarebbero mancati dovevano essere trovati da qualche altra parte.
E lo strumento per trovarli è la Finanziaria
2005. Alcuni esempi: si riducono i soldi dei ministeri, così da avere “una
minore spesa pari a 700 milioni di euro per l’anno 2005 ed una minore spesa
annua di 1.300 milioni di euro a decorrere dall’anno 2006”; si
riducono “i trasferimenti correnti alle imprese pubbliche; si
aumentano alcune imposte indirette come “gli importi fissi dell’imposta di
registro, della tassa di concessione governativa, dell’imposta di bollo,
dell’imposta ipotecaria e catastale, delle tasse ipotecarie” cosi da
recuperare, solo per il 2005, ben 1.120 milioni di euro.
Un contributo lo darà anche la SOGIN. Grazie
ad un emendamento alla Finanziaria 2005 si decide che a decorrere dal 1°
gennaio 2005 sarà assicurato al Bilancio dello Stato un “un gettito annuo pari
a 100 milioni di euro (200 miliardi di lire) mediante il versamento all’entrata
del bilancio dello Stato di una quota pari al 70 per cento degli importi derivanti
dall’applicazione dell’aliquota della componente della tariffa elettrica.
L’occasione è data da un “tesoretto” che
doveva servire a compensare il comune che avrebbe ospitato il famoso Deposito
Nazionale per le scorie radioattive; comune che a novembre del 2003 si era
individuato in Scanzano Ionico, in Basilicata.
La dura protesta dei lucani e di tutto il
sud fece però cancellare quel nome dalla legge di conversione del decreto e
quel fondo, alimentato sin dal 2003 dal finanziamento per lo smantellamento, si
decide che sarà usato per compensare i comuni che da decenni ospitano siti
nucleari.
Soldi che a dicembre del 2004 il ministero
dell’economia si ritrova in casa, visto che il governo non ha ancora deciso in
che modo ripartirli ai comuni.
Ed ecco l’idea creativa: usarne una parte -
il 70% - per rimpinguare le casse dello stato. Poci spiccioli se paragonati ai
6 miliardi che servono, ma che mostrano come per mantenere la promessa di
Berlusconi il governo sia costretto ad inventarsi le soluzioni più disparate.
Poco importa se questo “trasferimento” sarà
un vero e proprio salasso per le casse della SOGIN e quindi un rischio per la
popolazione: l’importante è dimostrare che il governo rispetta l’impegno preso,
anche se con la destra da e con la sisnistra prende!
Chi prende carta e penna per chiedere al
parlamento di rivedere questa decisione è l’Autorità per l’Energia Elettrica ed
il Gas del presidente Alessandro Ortis, che dal 2003 ha sostituito il professor
Pippo Ranci.
La lettera è del 2 dicembre 2004, i
giorni nei quali si sta discutendo il disegno legge della manovra Finanziaria
per il 2005, e denuncia come “Il prelievo in discussione pur in presenza di
razionalizzazioni ed efficientamenti nella gestione societaria, potrebbe
comportare un ridimensionamento delle attività della SOGIN. Attività che,
tuttavia, riguardando anche la sicurezza, non possono essere eccessivamente
compresse.”
La lettera è molto chiara: se il Parlamento
abroga l’articolo fa una cosa giusta; se non lo abroga l’Autorità dovrà,
necessariamente, aumentare l’aliquota nucleare che grava sulla bolletta per
“garantire l’espletamento di tali attività”. Un’ operazione, questa, che
renderà “più problematica la manovra […] di contenimento degli aumenti, da
definirsi in occasione del prossimo aggiornamento per il primo trimestre 2005 e
per quelli successivi.”
Ma le avvertenze dell’Autorità cadranno nel
vuoto e per non avere problemi di finanziamento per la SOGIN l’Autorità
Elettrica a dicembre del 2004 crea una seconda aliquota nucleare, chiamata MTC,
il cui importo sarà di 0,2 cent a kwattore e che servirà a rendere permanente
la compensazione per i comuni nucleari.
In questo modo si crea un flusso di denaro
autonomo che ogni anno sarà usato in parte per rimpinguare le casse dello stato,
visto che l’articolo della Finanziaria dice “a partire dal 2005”, in parte per
compensare i comuni nucleari. Allo stesso tempo si garantisce il finanziamento
per le attività della Sogin.
Nel 2006 l’operazione si ripete. Il governo
è cambiato, adesso c’é il centro sinistra, ma, a quanto pare, alcune attività
sono bipartisan perché nella Finanziaria 2006 si dice che “a decorrere
dall'anno 2006, sono assicurate maggiori entrate, pari a 35 milioni di euro
annui, mediante versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una quota
degli introiti della componente tariffaria A2 sul prezzo dell'energia
elettrica.”.
Come in un film già visto, l’Autorità
Elettrica scrive di nuovo al Parlamento il 16 dicembre 2005
ribadendo come quel prelievo comporterà ulteriori riflessi tariffari negativi.
E stavolta li quantifica. L’Autorità dovrà aumentare la tassa nucleare che
comporterà per le tariffe elettriche “un onere addizionale pari a oltre lo 0,4%
sulla bolletta elettrica al consumatore finale.” Per
capirci: in un anno che vede l’inflazione aumentare dell’1,2%, la bolletta
elettrica è aumentata dello 0,4%.
L’ultimo atto di questa storia è datato 24
aprile 2007,
quando l’Autorità è in grado di quantificare quanto sia costata all’utente la
decisione di deviare il flusso del finanziamento nucleare nelle casse dello
Stato. “Come già segnalato senza esito in precedenza […] al momento in cui la
discussione parlamentare era ancora in corso, da oltre due anni a questa parte,
per effetto delle leggi in oggetto, al bilancio dello Stato sono direttamente
destinate prestazioni patrimoniali a valere sulla tariffa elettrica, che hanno
comportato un accrescimento della tariffa stessa per circa 135 milioni di Euro
l’anno. All’impatto sul consumatore dell’incremento della tariffa […] va poi sommato quello dell’Iva che, stante la
normativa fiscale attuale, viene applicata anche su queste componenti, portando
così il totale dell’onere a superare i 150 milioni di Euro annui. È evidente
che le previsioni delle due Leggi finanziarie per il 2005 e per il 2006, introducono,
accanto ad una componente parafiscale (quella degli oneri di sistema) un
vero e proprio prelievo di tipo fiscale, poiché prevedono la destinazione
di una parte del gettito proveniente dalla tariffa elettrica al generale finanziamento
del bilancio dello Stato. Si tratta di un prelievo fiscale di natura
sostanzialmente occulta poiché non
realizzato attraverso un provvedimento di carattere esplicitamente tributario,
ma agganciando una parte del gettito dovuto al bilancio ad un prelievo di altra
natura. A ciò si aggiunga che la destinazione a finalità generali di fondi
raccolti a valere su tariffe elettriche, che per loro stessa natura non
incidono sulla totalità dei cittadini, sembrano configurare una violazione dei
canoni di costituzionalità generale in materia tributaria (rispetto dei
principi di generalità e progressività)”
E oggi? Quel contributo c’é ancora? A
scorrere le ultime Finanziarie (2007 e 2008) sembrerebbe di no, anche se la
Finanziaria 2005 precisava come quel contributo dovesse essere versato “a
decorrere del 2005”.
I
manager Enel
Il 2005 è un anno importante per la SOGIN.
Il 15 aprile l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il GAS, che nel febbraio
2002 con la delibera 71/02 aveva approvato il finanziamento triennale
(2002-2004) per avviare l’attività di decommissioning dei vecchi siti nucleari,
inizia a esaminare i conti della SOGIN in relazione alle spese sostenute per lo
smantellamento. L’Autorità deve infatti valutare il lavoro compiuto per
ridefinire il finanziamento per il triennio seguente. Dal 2003 i vertici
dell’Autorità sono cambiati. Il professor Pippo Ranci, presidente dal 1992
(anno di nascita dell’ente) è sostituito da Alessandro Ortis.
Ortis è un ingegnere nucleare, quindi
conosce il campo nel quale opera quella società. Interessanti due fatti: il
primo, che nessuno sa, è che Ortis nel 2003 ha fatto parte del Consiglio
Scientifico di SOGIN voluto proprio dal generale Jean; il secondo, e questo lo
sanno tutti, è che con Ortis l’Autorità inizia a fare le pulci a SOGIN, tanto
da mettere finalmente “in piazza” le deficienze della società. Come dire che la
SOGIN la conosce dal dentro!
Esempio eclatante la delibera 66/05 del 13
aprile 2005 che mette a nudo il fallimento del mandato che le era stato affidato,
come evidenzia questo passaggio dove si rileva come “le uniche attività per le
quali risulta operativa, in attuazione delle prescrizioni poste con la
deliberazione n. 72/01, una procedura di monitoraggio dell’avanzamento fisico
sono quelle relative alle centrali e al ciclo del combustibile; tali attività,
pari a circa un terzo del totale, hanno maturato un consistente ritardo, pari
al 50,4% del programma, ciò che comporta, tenendo conto dell’effettivo
avanzamento rispetto ai valori a preventivo, un aumento dei costi pari a 20,7
milioni di euro, a moneta 2004”.
Il problema che si troverà ad affrontare la
dirigenza SOGIN non sarà solo il fatto di aver speso male i soldi ma il fatto
di aver speso soldi per attività che non rientravano in nessun mandato operativo:
4,8 milioni di euro (quasi 15 miliardi di lire) che l’Autorità non riconoscerà
alla SOGIN, come scrive sempre la delibera 66/05, “a motivo del consistente
rallentamento delle attività e della rilevante incidenza, sia assoluta che
relativa, dei costi di struttura sul totale delle attività, dovuta, tra
l’altro, a incrementi significativi di voci di costo quali, a titolo
esemplificativo, quelle relative all’ufficio di Mosca, alle consulenze da terzi
e alle prestazioni professionali”. C’è un po’ di tutto: assunzioni pilotate,
consulenze non sempre trasparenti,
sponsorizzazioni particolari ma
soprattutto la spesa di più di 3 milioni di euro per aprire una sede a Mosca
senza alcuna autorizzazione formale da parte del governo. Una
storia che affronteremo più avanti.
La delibera è una patata bollente nelle mani
del Ministero dell’Economia Domenico Siniscalco, che ha sostituito da poco
Giulio Tremonti; lui della SOGIN sa poco e chiede lumi alla società sul fatto
incredibile che pur essendo pubblica, finanziata da un contributo pubblico,
avere un unica commessa, agire sulla base di indirizzi ministeriali, ha i conti
in rosso.
La normalità vorrebbe che tutto il gruppo
dirigente fosse mandato a casa. Al contrario il Bilancio è approvato a
settembre, con 4 mesi di ritardo ed in rosso.
La sola sostituzione è quella dell’Ad: al
posto dell’ing. Giancarlo Bolognini, ingegnere nucleare, arriva l’ing. Giuseppe
Nucci, ex manager ENEL.
Non solo. Pur invitando la società “al
contenimento dei costi, in particolare quelli relativi al personale, nonché a
valutare l’effettiva convenienza economica di ogni nuova iniziativa sulla base
di dettagliate analisi economico-finanziarie”, come è dichiarato nel comunicato
stampa di presentazione del Bilancio 2004, il CdA è portato da 7 a 9 membri.
Ma chi è l’ingegner Nucci e quali qualità ha
per diventare l’Amministratore di un’azienda particolare come la SOGIN?
« Il
suo profilo corrisponde ai requisiti necessari per il ruolo assegnato ed a
quelli richiesti dallo Statuto della società, avendo lo stesso assunto più
volte incarichi di alta direzione, anche in qualità di Amministratore delegato
di diverse aziende, fra le quali un primario gruppo energetico nazionale e un
gruppo leader nel settore delle telecomunicazioni ».
Questa la risposta all’interrogazione del
senatore Aleandro Longhi che
chiedeva lumi sulla scelta di Nucci, da parte del sottosegretario di Stato del
governo Prodi Massimo Tononi, il 28 novembre 2006. È interessante il fatto che
la nuova maggioranza, dalle cui file per anni si è sparato a zero sull’operato
della SOGIN, difenda adesso il mancato
rinnovo di quel consiglio e un dirigente nominato dal precedente governo.
Leggendo però il curriculum di Nucci si
rileva come sia stato responsabile qualità dei veicoli industriali Fiat
(1979-1985), poi direttore della filiale di Roma della Tecnomasio-Brown Boveri
(1985-1989) – un’azienda che all’epoca realizzava locomotori ferroviari – per
approdare nel 1999 all’Enel. Qui, dal 2002 al 2004, ha la sua prima vera
esperienza di amministratore, dirigendo la “prima diversificazione nel settore
energia del Gruppo” chiamata Enel So.le, che opera, dice sempre il curriculum,
“nel settore dell’illuminazione pubblica e artistica”. Che sia questa
l’esperienza come dirigente di un “primario gruppo elettrico italiano”? E a
cosa ci si riferisce Tononi quando parla di “gruppo leader nel settore delle
telecomunicazioni “? Certo se un generale in pensione può fare il presidente
della SOGIN, perché non può farlo un esperto in illuminazione pubblica?
L’avventura di Nucci alla SOGIN è breve: 1
anno e 2 mesi. Ma in questo poco tempo riesce comunque a mettersi in luce per
le sue “capacità” di comunicazione e, pur non essendo un esperto del settore,
gli bastano pochi mesi perché si inserisca perfettamente negli ingranaggi SOGIN
dove si dice una cosa e se ne fa un’altra.
Il 28 novembre 2005, appena nominato Ad (13
ottobre 2005), è in Basilicata, a Scanzano Ionico. Partecipa, con il generale
Jean, al tavolo della trasparenza ed afferma, come riporta il verbale
dell’incontro, di voler riformare l’attività di SOGIN per renderla più
efficiente e più aperta verso le amministrazioni locali “ sia dal punto di
vista tecnico che dal punto di vista del tempo” manifestando l’intenzione di
utilizzare sempre più le risorse interne, facendo chiarezza sui problemi della
stessa società e sforzandosi di ridurre i costi.
In effetti sotto la direzione dell’ingegner
Nucci si svolgono due audit interni, i primi nella storia della società. Si
vuol verificare se siano state rispettate le regole “in merito alle procedure
esistenti ed al relativo rispetto in materia di assunzioni, promozioni,
assegnazioni ai vari uffici, remunerazioni fisse e variabili ed incentivazioni
all’esodo anticipato”, come si legge nella delibera del CdA del 29 novembre
2005.
La cosa che lascia di stucco è la persona
alla quale l’amministratore da l’incarico per realizzare l’internal audit: al
generale Jean che si ritrova, incredibilmente, ad indagare su se stesso, visto
che la maggior parte delle decisioni sono state prese da lui nelle veste di
commissario delegato. Il generale, dice sempre quel verbale, “sovrintende,
dandone continua e completa informativa al Consiglio di Amministrazione, alle
attività di auditing, la cui funzione resta collocata alle dipendenze
dell’Amministratore Delegato”.
Il 26 febbraio 2006 è intervistato da «
Scienza e Tecnologia »
alla quale dichiara come « grazie alle
nuove tecnologie e ai reattori di ultima generazione EPR l’Italia potrebbe
tornare a produrre energia nucleare nel giro di cinque anni » e che « La SOGIN è pronta a mettere a disposizione
del Paese le competenze accumulate nel settore qualora l’Italia imbocchi
concretamente la strada del ritorno all’atomo ». Non male per un dirigente
di un’azienda che come missione ha la chiusura della stagione nucleare
italiana.
L’ingegnere ha anche il merito di aver
risolto qualche problema sorto con il sindacato di categoria che sin
dall’inizio della storia chiedeva alla SOGIN di venire a conoscenza del piano
industriale. L’avvio è buono, come si rileva dal comunicato stampa sindacale
del 28 dicembre 2005, che
saluta l’incontro con l’ing. Nucci come “un avvenimento di rilievo in quanto
segna la ripresa dei rapporti sindacali e la contestuale uscita dalla difficile
situazione che da mesi ha attraversato SOGIN”.
A questo punto dobbiamo fare un passo
indietro.
Il 25 maggio 2005 l’Ad Bolognini, con uno
degli ultimi atti formali della sua dirigenza, concorda con i sindacati un
premio di produzione valevole per il periodo 2004-2007 da dare ai dipendenti in
relazione al raggiungimento di alcuni risultati.
L’accordo prevede che il 52% del premio sia
legato “all’andamento generale della SOGIN” e riconosciuto a tutto il personale
“in misura parametrata all’inquadramento e alla presenza” (in sostanza un fisso
da riconoscere comunque) ed il restante 48% sia invece legato “ad obiettivi di
produttività e quality”. Gli importi, dice l’accordo, saranno distribuiti nel
mese di giugno 2005 (cassa 2004) e giugno 2006 (cassa 2005).
Ed ora torniamo a Nucci.
Quando a giugno 2006 i sindacati convocano
SOGIN per parlare del premio da erogare la situazione per la dirigenza non è
buona. Non c’è ancora un piano industriale e l’Autorità, nelle sue delibere,
evidenzia importanti ritardi sul programma tanto da scrivere nella delibera
103/06 del 25 luglio 2006 – che approva le spese per il 2006 – come l’attività
di smantellamento presenti “un ritardo complessivo, cumulato nel periodo
2001-2005 rispetto al programma 27 dicembre 2004, pari al 42% a fronte di un
Bilancio di spesa di 127,7 milioni di euro” e come sulla spesa gravi “un
avanzamento minimo dei lavori” e “l’aumento, per il quarto anno consecutivo,
degli organici allocati prevalentemente nella sede centrale”, sia l’aumento “di
alcuni costi generali, quali consulenze da terzi, spese di elaborazione,
accesso alle banche dati e pubblicità, trasferte dipendenti, utilizzo del
software e altre spese”. Insomma un anno da dimenticare ed un premio di
produzione mancato.
Invece no: il premio ci sarà lo stesso,
visto che non è certo questo il momento di avere conflitti con il sindacato.
Sta infatti esplodendo il problema della piscina dell’Eurex, dove sono affogate
alcune tonnellate di barre nucleari, che si è scoperto perdere acqua
radioattiva sin dal 2004. Inoltre le elezioni hanno favorito una maggioranza di
centro sinistra che sembra voler finalmente cambiare la stessa dirigenza SOGIN.
Non è certo questo il momento di avere altri problemi.
Perciò il 20 giugno 2006 la SOGIN ed il
Sindacato si accordano di dare un “premio ponte” in
quanto, recita l’accordo, “non è stato possibile definire gli Obbiettivi
relativi ai Parametri del Premio di Risultato 2005, cassa 2006, per ragioni
oggettive”. Una bella battuta! Contento il sindacato, contenti i dipendenti,
contento Nucci. Meno contenti i contribuenti, le famiglie italiane che con
l’aggravio della bolletta finanziano SOGIN, considerato che pagheranno circa
599.668 euro (più di 1 miliardo di vecchie lire)
per
distribuire un premio di produzione inesistente.
Ma l’episodio più eclatante dell’era Nucci
accade a pochi mesi dal suo insediamento (13 ottobre 2005) quando il 16
dicembre 2005 si fa “assumere” dalla SOGIN, insieme al generale Jean, come
dirigente.
In quella data il Cda delibera, infatti, di
dare “appositi compensi per incarichi esecutivi conferiti al Presidente del
Consiglio di Amministrazione e all’Amministratore Delegato” assumendolo come
Direttore dei Progetti Esterni per il Nucleare (PEN) e Direttore per i progetti
Esterni nel settore ambientale (PEA), due attività che sotto la sua direzione
non hanno però prodotto alcun risultato. I compiti del generale Jean rimangono
poco chiari.
La remunerazione sarà suddivisa in due
componenti: una fissa ed una variabile – al raggiungimento di particolari
obiettivi annuali.
Per Nucci si delibera 230.000 euro per la
parte fissa e 70.000 euro per quella variabile; per il presidente, il generale
Jean, 100.000 e 30.000 euro.
Inoltre è prevista, per le due componenti,
“una durata minima garantita corrispondente al periodo di effettivo svolgimento
dell’attività del Consiglio di Amministrazione” (3 anni). Il motivo? Premiare
l’impegno “del Presidente e dell’Amministratore Delegato a non dimettersi per
l’intera durata del mandato, se non su richiesta dell’Azionista di riferimento”.
Se l’azionista di riferimento, il Ministero
dell’Economia, revocasse l’incarico ai due dirigenti o li costringesse a dare
le dimissioni? Nessun problema. All’Ad e al Presidente verrà comunque
“corrisposto un importo, a titolo di indennità compensativa e risarcitoria,
pari, per il Presidente, all’ammontare complessivo degli emolumenti che avrebbe
percepito fino alla scadenza del relativo rapporto, e per l’Amministratore
Delegato, pari ad un triennio dei compensi complessivamente goduti (per entrambi,
assumendo, per la parte variabile, la media dei compensi percepiti negli ultimi
due anni ovvero, in mancanza, il 50% dell’importo massimo previsto”.
E’ tutto scritto nella relazione sul
Bilancio SOGIN del 2004 della Corte dei Conti che
scrive come questa indennità è una “novità inusuale” che “se per un verso
potrebbe risultare ingiustificatamente onerosa per la società, per altro verso,
con riferimento al compenso variabile, sembra porsi in contrasto con la stessa
congruenza causale, dal momento che in caso di mancata prestazione
dell’attività (per recesso o altra causa non addebitabile alla società) deve
comunque continuare ad essere erogata per tutta la prevista durata del
mandato”.
Quando il 31 dicembre 2006 il governo Prodi
riformerà il Consiglio della SOGIN, l’ingegner Nucci al momento del
licenziamento riceverà più di 1.035.000 euro lordi cui
è da aggiungere l’emolumento come Ad.
Un premio importante per un dirigente che
non ha fatto fare alcun passo in avanti alla società e che fa scrivere alla Autorità
Elettrica come “nell’ipotesi che la SOGIN realizzi nel 2006 tutte le attività
previste nel programma 29 maggio 2006, il ritardo accumulato negli anni 2005 e
2006 rispetto a quanto preventivato per i medesimi anni nel programma 27
dicembre 2004 sarebbe pari al 50% circa”.
Il 31 gennaio 2007 il Ministero
dell’Economia nomina i nuovi vertici aziendali di SOGIN. Un
rinnovo voluto dal governo di centrosinistra “ai fini del contenimento della
spesa pubblica” che riduce il consiglio di amministrazione a tre elementi
facendo terminare l’era del commissario delegato e delle emergenze perpetue.
Il nuovo CdA vede come presidente della
società il prof. Maurizio Cumo, fisico nucleare e docente presso l’Università
di Roma «La Sapienza». Un ritorno. Amministratore delegato è l’ing. Massimo
Romano, già direttore Funzione Affari Regolamentari e Corporate Strategy di
ENEL. Unico consigliere il prof. Luigi De Poli, docente ordinario di Economia e
gestione delle imprese ed anche Direttore dello Iefe, l’Istituto di Economia e
Politica dell’Energia e dell’Ambiente.
Una struttura dirigenziale che dovrebbe
rivoltare come un guanto l’azienda dandole una spinta per accelerare la
dismissione dei vecchi siti nucleari.
Come dichiara lo stesso Romano alla
Commissione Bicamerale il 15 maggio 2007, la SOGIN ha finora speso più del 18%
delle risorse finanziarie predisposte per lo smantellamento dei siti “che
corrispondono però ad attività fisiche pari al 9%”. La SOGIN deve cambiar
pelle, dice sempre in quella audizione Romano, perché sino ad oggi continua a
“gestire gli impianti come fossero ancora in esercizio e non, al contrario,
avviati allo smantellamento.”. Di conseguenza, dice sempre l’Amministratore
delegato della SOGIN alla Commissione, “ad una solida cultura tecnica” la sua
società “deve aggiungere una cultura manageriale evoluta, propria di una
moderna cultura d’impresa, orientata all’efficienza, ai risultati e alla
responsabilità sociale, sostenuta da una governance rigorosa e trasparente”.
Buone intenzioni che sfociano nel piano
industriale che il 3 agosto 2007 è presentato alle organizzazioni sindacali. Un
piano che vede coniugate sicurezza, efficienza e risparmio. Un piano aspettato
da 8 anni.
Passano però pochi mesi ed ecco che si
ripropone una scena già vista.
L’8
novembre 2007 il consiglio di amministrazione si riunisce e delibera che al
presidente Maurizio Cumo e all’amministratore delegato Massimo Romano, cioè a
due dei tre componenti il consiglio stesso, siano assegnati incarichi
supplementary. Il presidente è nominato responsabile del Comitato per il
controllo interno della società, mentre l’amministratore delegato è nominato
Direttore Generale. Tre persone per cinque incarichi. Che sia questa la
“cultura manageriale” intesa dall’Ad della società?
Nuove cariche dirigenziali e, chiaramente
nuove remunerazioni.
Il Consiglio decide infatti che Cumo riceva
150.000 euro lordi all’anno, oltre all’emolumento come Presidente, e Romano ben
869.000 euro lordi all’anno.
Nessun errore di battitura. È tutto vero e
scritto nella « Relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione
finanziaria della Società Gestione Impianti nucleari per azioni (SOGIN spa),
per l’esercizio 2006 » redatta dalla Corte dei Conti. Una relazione che, oltre
ad analizzare quel bilancio, per darne conto al Parlamento e al Governo,
evidenzia anche le attività finanziarie più importanti dell’anno in corso.
Dalla relazione si evince che, per la carica
di amministratore delegato, a Romano il consiglio riconosce un fisso annuo di
90.000 euro (al momento dell’insediamento a gennaio del 2007 l’emolumento era
di 30.000), una parte variabile “collegata al raggiungimento degli obiettivi”
di 30.000 euro e un’indennità di uscita “pari ad una annualità di parte fissa
(90.000 euro) e della media annuale della parte variabile (tendenzialmente
30.000 euro)”. Per la carica di direttore generale, invece, gli riconosce un
fisso annuale di 330.000 euro, una parte variabile di 150.000, un “entry bonus”
di 245.000 euro e un’indennità di uscita “pari ad una annualità della
retribuzione fissa (330.000 euro) e (sostanzialmente) alla media della
retribuzione variabile (115.000 euro)”. Conseguentemente, dice la Corte dei
Conti, “l’ammontare complessivo (per Romano) può quantificarsi in 869.000 euro
annui lordi e resterebbe contrattualmente salva la conversione del rapporto di
lavoro da tempo determinato in tempo indeterminato”.
La relazione spiega anche quali siano stati
i passaggi che hanno determinato quegli importi. Gli stipendi da riconoscere ai
due dirigenti per i loro nuovi incarichi sono decisi dal Comitato per le
remunerazioni; poi, dopo che il Collegio sindacale ha approvato quella
proposta, il consiglio di amministrazione la vota a maggioranza. Un sistema che
dovrebbe garantire la correttezza e la trasparenza nella determinazione di
questi stipendi pagati con soldi pubblici ai dirigenti della società, ma che,
alla prova dei fatti, alimentano qualche dubbio. Ad esempio, il fatto che il
Comitato per le remunerazioni, come si legge nel sito di SOGIN presieduto dal
consigliere Poli, proponga “le remunerazioni dell’amministratore delegato e dei
consiglieri che ricoprono particolari cariche” e che “i criteri di
remunerazione dell’alta direzione della Società” siano dati “sulla base delle
indicazioni dell’amministratore delegato”. In questo caso l’amministratore
delegato Massimo Romano che “indicazioni” darà per remunerare il direttore
generale Massimo Romano? E il consigliere Massimo Romano come voterà queste
remunerazioni? E come voterà De Poli, allo stesso tempo presidente del Comitato
per le remunerazioni e membro del cda? Domande alle quali può rispondere solo
SOGIN.
Per la Corte non ci sono dubbi: la SOGIN è
“una tipica società pubblica che non opera sul mercato in regime di
concorrenza, che non assume sostanzialmente rischi di impresa e che non
privilegia la remunerazione del capitale e la massimizzazione degli utili e dei
dividendi per l’azionista” Per questo motivo la “regolazione dei rapporti di
amministrazione e di lavoro” non si allinea “ai canoni di sana gestione, che
implicano nella specie – per l’Azienda e per i responsabili organi della
Società – il rispetto delle compatibilità correlate alla natura dell’attività
aziendale e delle funzioni svolte [...] nonché degli orientamenti legislativi
sul contenimento della spesa pubblica ed in particolare degli oneri per
amministratori e dirigenti”.
Insomma troppi soldi per dirigere un’azienda
unica che lavora su direttive governative per realizzare un’appalto pubblico
affidatogli in condizioni di monopolio.
Comunque, conclude la Corte, “la materia è
stata [...] ridisciplinata dalla legge finanziaria per il 2008, alla luce della
quale va regolata la situazione dei rapporti in corso”. Il fatto è che la
delibera potrebbe essere annullata perché la Finanziaria 2008 pone dei limiti
agli stipendi dei manager pubblici, limite che l’ing. Romano sfora.
La notizia è stata ripresa da un unico
giornale: la « Gazzetta di Saluggia » (lo si può capire, considerato il sito di
Saluggia), un quindicinale di informazione locale.
Per i media nazionali, la notizia che un
dirigente di una società pubblica goda di uno stipendio di quasi 1 milione di
euro è priva d’importanza. Per la Gazzetta è il contrario. Saluggia è il paese
che detiene il triste record di essere la più grande discarica radioattiva con
l’impianto EUREX dell’ENEA dove è raccolto l’80% delle scorie radioattive
ereditate dalla precedente stagione nucleare.
La risposta della SOGIN non si fa attendere.
Gabriele Mazzoletti, responsabile
dell’ufficio comunicazione della società difende la scelta del Cda. Per lui è
la Corte dei Conti ad aver sbagliato e, in un’intervista alla Gazzetta
spiega cosa è successo.
Secondo Mazzoletti gli errori della Corte
sono due. Il primo riguarda l’arco di tempo preso come base di calcolo per la
remunerazione: invece di 32 mesi il contratto a tempo determinato come
dirigente di Romano è di 40,5 mesi. Quindi l’importo si riduce. Questo può
considerarsi un errore “formale”, sostiene Mazzoletti. Il secondo errore è
invece sostanziale: riguarda la differenza tra la remunerazione di Romano e
quella del precedente, l’ing. Nucci, che la Corte ha preso come riferimento
nella sua relazione. Il confronto fatto « è
stato un confronto fatto su dati disomogenei ». La Corte, nella relazione,
ha infatti riportato il compenso da dirigente del vecchio amministratore che
risulta più basso di quello riconosciuto all’attuale. Ma, Mazzoletti spiega
che, se si facesse lo stesso conteggio cumulativo anche per il precedente
amministratore si arriverebbe a una cifra maggiore di quella in questione.
Sempre Mazzoletti precisa che l’amministratore precedente si era fatto
riconoscere dal cda un’indennità di uscita pari a tre annualità, mentre per
Romano l’indennità è di una sola annualità (se volevamo una conferma circa la
storia di Nucci l’abbiamo avuta).
Inoltre l’attuale cda ha addirittura
previsto «misure che in assoluto
comporteranno un costo dell’attuale consiglio di amministrazione inferiore di
circa il 10% rispetto al costo del precedente » – precisa Mazzoletti al
giornale [Il cda cui fa riferimento Mazzoletti era comunque composto da 9
consiglieri che oggi sono diventati 3 e questo cda costerebbe solo il 10% in
meno del precedente – n.d.s.].
Se l’idea è risparmiare, perché dare nuove
cariche, chiede il giornalista. «Perché
– risponde Mazzoletti – è prassi ovunque,
in Enel, in Eni, in Poste che l’amministratore delegato se già dirigente
d’azienda conservi un rapporto dirigenziale. È un atto puramente formale ».
Insomma la necessità è riconoscere uno
stipendio manageriale a Massimo Romano e la modalità è affidargli una carica
dirigenziale. Qualunque fosse la carica, l’importante era potergli fare un
contratto di lavoro da manager aziendale, retribuzione compresa.
«Se
questo signore accetta di venire a fare l’amministratore delegato in SOGIN
dovrà prendere uno stipendio adeguato o no? », aggiunge Mazzoletti. « Ma poi, scusi – insiste con il
giornalista – vogliamo continuare a fare
l’1% all’anno di smantellamento? Come cittadino dico: prendiamo pure un
amministratore da 500 mila euro l’anno
ma facciamo questo decommissioning in 15 anni invece che in cento!”.
Comunque la delibera è stata bloccata, dice
ancora Mazzoletti. Perché «quello che è
stato deciso l’8 novembre 2007, già il 1° gennaio 2008 non valeva più perché
era entrata in vigore la Finanziaria 2008 ». Il riferimento è all’articolo
3, comma 44 della Finanziaria 2008 che dice come “il trattamento economico
onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle pubbliche finanze emolumenti
o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con
pubbliche amministrazioni statali [...] non può superare quello del primo
presidente della Corte di Cassazione”. L’ingegner Romano, chiosa Mazzoletti
nell’intervista, prenderà «solo
l’emolumento da amministratore. Ma nonostante ciò Romano continua a stare qui
15 ore al giorno, a mandare avanti questa macchina con fatica e con passione, e
vedrà che il 2008 ci darà ragione ».
Il 24 maggio 2008 l’azionista di maggioranza
della SOGIN, il Ministero dell’Economia, approva il Bilancio 2007. Qualche
settimana prima, il 9 maggio 2008, l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas
di Alessandro Ortis, con la delibera 55/08 aveva approvato le spese della
società: 178,2 milioni di euro.
E’ il primo bilancio della nuova gestione e
il comunicato della SOGIN parla di un’azienda in crescita e di come l’Autorità
abbia riconosciuto integralmente i costi per lo smantellamento.
Leggendo però la delibera n. 55
dell’Autorità elettrica, a cui fa riferimento il comunicato stampa della società
e che è stata propedeutica alla chiusura del bilancio, l’attività svolta dalla
SOGIN nel 2007 non è poi stata tanto brillante. Non è vero che i 178,2 milioni
riconosciuti dall’Autorità elettrica siano stati completamente usati per lo
smantellamento: 101,4 milioni sono stati devoluti ad attività che, con lo
smantellamento, non hanno niente a che fare. Per esempio i costi per il project
management, ovvero la riorganizzazione della società voluta dalla nuova
dirigenza; un costo valutato dall’Autorità in 9,9 milioni di euro che stride
con le dichiarazioni di risparmio della dirigenza stessa. Risultano in aumento
le spese per mantenere in sicurezza i siti, che passano dai 6,2 milioni di euro
spesi in media negli anni 2002-2006 ai 10,9 milioni nel 2007; costi, specifica
la delibera, relativi a interventi per garantire solo la sicurezza delle
centrali e degli impianti “a seguito dell’obsolescenza delle infrastrutture,
imputabile anche al rallentamento delle attività di smantellamento”. Altre
spese sicuramente saranno meglio spiegate nel Bilancio, ma nella delibera sono
genericamente indicate come costi di “gestione siti e servizi vari (49,9
milioni di euro)”, di “coordinamento e servizi generali” (27,6 milioni), di
“emergenza” (0,9 milioni), e di “incentivi all’esodo” (1,6 milioni). Per lo
smantellamento vero e proprio sono stati spesi solo 72,1 milioni di euro. Anche
se la spesa è stata superiore a quella del 2006, l’avanzamento dei lavori nel
periodo 2001-2007 presenta “un ritardo pari al 14% rispetto al preventivo a
vita intera rivisto da SOGIN nel marzo 2007”. Per intenderci la SOGIN non ha
rispettato il piano industriale proposto dalla stessa nuova dirigenza.
La solita SOGIN, si potrebbe dire, anche se,
alla presentazione del Bilancio, i toni di Romano sono entusiastici.
« Nel
2007, abbiamo affrontato le criticità strutturali di Sogin - dice - attraverso la revisione dei processi
gestionali, l’introduzione di strumenti di pianificazione e controllo
dell’avanzamento delle attività e [...] abbiamo
risolto con successo le emergenze. Nel 2008 - conclude - conseguiremo i primi importanti risultati in
termini di accelerazione delle attività di decommissioning, e di ulteriore
riduzione dei costi di funzionamento [...] generando un risparmio importante per il consumatore elettrico italiano
».
Al 25 giugno 2008, alla SOGIN sono stati
erogati dall’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, quale anticipo di
spese per l’anno 2008, ben 250 milioni di euro. Ricordiamo che nel 2000
l’aliquota nucleare era di 1 lira a chilowattore
mentre oggi siamo a 0,59 centesimi a chilowattore.
Questo, insieme agli altri “oneri”, fanno si che la bolletta elettrica italiana
sia la più tassata d’Europa.
Il
Cemex
In
Piemonte, in provincia di Vercelli, c’e un paese, Saluggia, che detiene un
primato: è il paese più radioattivo d’Italia. Paese agricolo, famoso per i
fagioli, fu scelto negli anni Sessanta per localizzare l’impianto EUREX
dell’ENEA, un centro per studiare il « ritrattamento » del combustibile
nucleare, una tecnica che permette di recuperare l’uranio non « bruciato » nel
corso della reazione nucleare. Nel centro non si trova solo l’impianto
dell’ENEA, ma anche un vecchio reattore nucleare di ricerca della Fiat-Avio e
gli stabilimenti radiochimici della Sorin, un gruppo di aziende sempre di
proprietà della Fiat, che sviluppa strumenti radiologici. Per molti versi
Saluggia è di fatto il Deposito Nazionale delle scorie considerato che, in quel
comune, è concentrato l’80% delle scorie più pericolose e longeve.
Il problema è che una parte di queste scorie
sono i residui della lavorazione del laboratorio di ritrattamento. Fanghi e
resine liquide composte dalle sostanze chimiche usate per estrarre l’uranio ed
i residui radioattivi. 225 metri cubi di una miscela “atomica” che, se finisse
nel fiume Dora, provocherebbe un disastro a livello nazionale.
«Se il
canale Farini, uno dei canali colmati dall’esondazione della Dora, avesse rotto
cinquecento metri più a monte e, invece di defluire in Dora, senza passare
sull’impianto dell’ENEA, lambendo solamente una parte della SORIN, fosse
passato direttamente sull’ENEA si sarebbe prodotto un disastro ambientale di
dimensioni sicuramente non misurabili. Infatti, considerata la quantità di
scorie, tra liquide e barre, e di altri materiali che sono giacenti in questi
siti, non sappiamo fin dove vi sarebbe stata contaminazione. Sicuramente per
tutta l’asta del fiume Po e forse anche fino all’Adriatico».
Con queste parole il 13 dicembre del 2000
l’allora assessore alla pianificazione territoriale della provincia di Vercelli
Marco Fra spiegò alla Commissione Ambiente della Camera il rischio che si era
corso durante l’alluvione del 15 ottobre del 2000. Un’alluvione la cui
intensità, secondo gli esperti di allora, doveva essere considerata
completamente anomala.
Se si guardasse dall’alto il sito dove è
stato costruito l’Eurex – e gli altri stabilimenti – si vedrebbe come le
strutture siano all’interno di un avvallamento, un ansa golenale, a poca
distanza dal fiume e da due canali costruiti per prelevare l’acqua dal fiume ed
irrigare i campi circostanti. In pratica il sito è costruito su un immaginario
triangolo che ha ai suoi lati tre corpi d’acqua.
Luoghi poco popolati, agricoli, vicini a
laghi o fiumi, con problemi di occupazione: questi i criteri scelti per
costruire installazioni nucleari.
Dopo l’alluvione del 2000, il problema della
sicurezza del sito è tornato alla ribalta. La SOGIN era appena nata e cosa fare
e come fare lo smantellamento dei siti ancora nessuno lo sapeva. Il documento
di Bersani era ormai dimenticato. Così come l’idea di istituire un’agenzia
governativa.
Il problema erano le scorie liquide, le più
esposte al rischio alluvione. Nel 1995 l’idea era di vetrificarle e l’ENEA
aveva avviato un progetto per farlo denominato CO.RA.
La vetrificazione prevede di inglobare le
scorie liquide in un particolare tipo di vetro. L’operazione avviene a
temperature di centinaia di gradi con il vetro fuso e la scoria liquida
sversati in contenitori d’acciaio poi chiusi ermeticamente. Questi contenitori
prima sono stoccati in apposite celle frigorifere per raffreddarli e quindi
collocati in depositi di cemento. In Europa, nel 2000, erano solo due i centri
abilitati ad utilizzare questa tecnica: la Francia, presso lo stabilimento di
Le Hague, e l’Inghilterra, presso Sellafield.
Morale della storia? Le scorie liquide ancor
oggi… sono allo stato liquido, anche se dal 2004 un nuovo progetto aveva preso
il posto del CO.RA: il CEMEX.
La proposta arriva direttamente dal
Commissario delegato, il generale Carlo Jean, al quale, come abbiamo visto, dal
marzo del 2003 il governo ha concesso la delega per la gestione della sicurezza
dei siti nucleari.
Considerato che il progetto CO.RA non ha
fornito una risposta e, vista la situazione di crisi internazionale la quale
richiede la messa in sicurezza delle scorie in tempo breve, queste si
cementificheranno. Al posto del vetro si userà il calcestruzzo che ha la
proprietà di trattenere i radionuclidi, una pratica standardizzata utilizzata
anche dall’Italia negli anni Settanta.
Il fatto che questo tipo di condizionamento
delle scorie sia usato in particolare per le scorie di I e II categoria solide
e non per quelle di III categoria, la classe in cui rientrano i fanghi liquidi
dell’Eurex, non è un problema per il generale. Il cemento può contenere le
emissioni radioattive del liquido e la specificità del liquido fa sì che, nel
corso del decadimento non vi sia produzione di calore.
Il progetto del generale Jean diventa
operativo il 1 luglio 2004.
Quasi un anno dopo, è l’11 maggio 2005, in
audizione alla Commissione Bicamerale sui Rifiuti, Jean parla del progetto
CEMEX come di un progetto ormai avviato.
«Per
quanto concerne l’attività commissariale, un altro punto critico è
rappresentato dal materiale radioattivo liquido collocato negli impianti Eurex
di Saluggia e Itrec di Trisaia. Il materiale presente presso l’impianto Eurex è
pari a 230 metri cubi, di cui 117 ad alta attività e 113 a bassa attività.
Questi residui hanno preso origine dalla liquefazione di combustibile irraggiato
in acido nitrico. Abbiamo consultato esperti internazionali ed osservato le attività di questo tipo
esercitate all’estero; quindi, visto che il progetto di solidificazione del
materiale in oggetto – avviato dall’ENEA nel 1994 – non aveva avuto successo a
causa di una serie di problemi tecnici dati dalla presenza di mercurio, è stato
deciso – anche a seguito dell’approvazione della commissione
tecnico-scientifica facente capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri –
di procedere alla sua cementazione.. Nel
contempo è stato avviato un progetto – denominato Cemex – comprendente tre item
che, a parer mio, è stato sviluppato egregiamente dalla Sogin nel rispetto dei
tempi previsti [...]. I tre obiettivi
del progetto Cemex riguardano la creazione di un deposito temporaneo, con una
capacità di durata che va dai trenta ai cinquant’anni, in cui si sistemeranno i
materiali cementati; il relativo progetto è stato già sottoposto all’APAT per
l’esame e l’eventuale approvazione [...] Infine, la parte più nobile del progetto riguarda l’impianto di
cementazione vero e proprio che, tra parentesi, è tecnologicamente molto
interessante e qualificante. [...] Le
prime due parti del progetto Cemex –
come detto in precedenza – sono state già sottoposte all’APAT, mentre la terza,
relativa all’impianto, verrà inviata all’Agenzia per l’inizio di luglio. Prima
di questa data verrà effettuato un controllo da parte di una delle migliori
compagnie specializzate nella cementazione di materiale radioattivo liquido,
l’angloamericana AEA Technology.».
Il progetto è talmente avanzato che il 15
dicembre 2005 il generale emana un’ordinanza che impone, per ragioni di
sicurezza, l’avvio del progetto CEMEX. Un
avvio “strano” perché l’ordinanza imporrà la costruzione a delle sole “opere connesse
al progetto CEMEX” e cioè la costruzione del nuovo sistema di
approvvigionamento idrico (serve molta acqua nel corso del processo di
cementificazione), del deposito D2 e le opere connesse (viabilità, portineria,
ecc.). Dell’impianto di cementificazione nessuna traccia.
È anche un’ordinanza a tempo perché è resa
esecutiva solo dal 31 gennaio 2006 e se in questo periodo “dovesse sopravvenire la definitiva approvazione della variante parziale
al piano regolatore [...] si
provvederà alla revoca con effetto « ex nunc » dell’ordinanza stessa”.
Sembra strano ma il commissario delegato che
ha poteri di derogare a leggi nazionali e regionali deve attendere una variante
del piano regolatore di Saluggia per costruire un impianto essenziale per
garantire la sicurezza della nazione. Non siamo in emergenza?
Il consiglio comunale di Saluggia dovrebbe
votare la mozione per modificare il piano urbanistico onde realizzare le opere
CEMEX, ma un comitato dei cittadini occupa il Comune e il consiglio non prende
alcuna decisione.
Il comitato ha esaminato l’ordinanza è non
capisce perché si vogliano realizzare le solo “opere connesse all’impianto
Cemex” e non il progetto completo. Si chiede di costruire i depositi prima
dell’impianto che deve produrre i manufatti da collocare nei depositi stessi,
significa che qualcosa non torna.
Il comitato scrive una lettera aperta al
generale contestando l’ordinanza e la decisione di costruire le sole opere
connesse.
L’autore è Umberto Lorini, direttore del
giornale locale «La Gazzetta», molto attiva nel denunciare le azioni del
Commissario. Il CEMEX, scrive Lorini, è “un impianto tuttora soggetto a
procedura di VIA e che non ha ancora ottenuto parere favorevole di
compatibilità ambientale da parte dei competenti Ministeri. Si tratta di un
impianto per il quale la SOGIN ha presentato all’APAT nel corso del 2005 i
Rapporti di Progetto Particolareggiato ma non si fa cenno, nell’Ordinanza, ad
eventuali risposte positive pervenute dall’Autorità di sicurezza [...] Come è
possibile dichiarare urgenti e farne oggetto di apposita ordinanza che ne
autorizza la costruzione, le opere connesse a un impianto che inizierà a
funzionare – ben che vada – nel 2009, la cui compatibilità ambientale va ancora
accertata e che – insieme alle opere stesse – deve ancora ottenere
l’autorizzazione dell’APAT?”.
La paura del Comitato è che si voglia
costruire a Saluggia il famoso Deposito Nazionale che, nel 2003, si voleva
costruire prima in Sardegna e poi in Basilicata, considerato che lì si trova
l’80% delle scorie italiane ereditate dalla precedente stagione nucleare.
“Capisco benissimo, signor Generale –
conclude Lorini nella sua lettera – che con i ruoli che ha Le riesce difficile
denunciare l’inadempienza del Governo. Perché è il Governo ad averLa nominata
Commissario, oltre ad averLe affidato la presidenza di Sogin spa. E quindi dal
Suo punto di vista è molto più facile accettarla, questa inadempienza, ed agire
di conseguenza: prendere atto che dell’individuazione del deposito nazionale
nessuno si sta più occupando. [...] È molto più comodo ordinare la costruzione
di nuovi depositi a Saluggia, anziché andare a Palazzo Chigi a chiedere al
Governo l’applicazione di una legge che dovrebbe uniformare tutte le azioni cui
Lei è chiamato a dar cors”.
Il progetto CEMEX era pronto oppure no?
Un’idea della situazione la possiamo
apprendere leggendo il crono- programma del 30 aprile 2006. Forse qualche
ragione i cittadini di Saluggia ce l’avevano perché a leggere quello che scrive
il Commissario, se da una parte si ordina di concedere il permesso per la
costruzione, dall’altra non è ancora pronto neppure il contratto con l’azienda
che deve realizzare l’impianto.
Per il Nuovo Sistema di Approvvigionamento
Idrico, scrive il commissario nel cronoprogramma, “è in ritardo la
formalizzazione del contratto con Ansaldo, prevista al 31 marzo 2006 e, di
conseguenza, non sono iniziati i lavori preliminari sul sito malgrado
l’esecutività – a partire dal 15 marzo 2006 – dell’Ordinanza commissariale del
26 febbraio 2006”.
Per le opere preliminari, si legge sempre
nel Cronoprogramma, “non è stato emesso, per sopravvenute esigenze procedurali
all’interno del Soggetto attuatore, il bando di gara previsto entro il 1°
aprile.”
Anche
per la costruzione del nuovo deposito temporaneo D-2, si legge, il soggetto
attuatore “non ha potuto rispettare la previsione di emettere il bando di gara
entro il 15 aprile 2006”.
Infine per quanto riguarda la costruzione
dell’impianto di cementazione e dell’annesso deposito temporaneo D3, che
nell’ordinanza del 31 dicembre 2005 non compariva, come denunciava Lorini,
purtroppo “si registra un ritardo nell’emissione del bando di gara [...]. È in
corso la procedura autorizzativa APAT e, come da delibera della Regione
Piemonte, quella di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA).”
“Pertanto – conclude il Commissario – sulla
base di quanto sopra sinteticamente esposto, risulta evidente uno slittamento
di tutte le prime scadenze indicate dal Commissario Delegato nei cronoprogrammi
a proposito delle attività sul sito di Saluggia, scadenze dedotte dalla
programmazione fornita dal soggetto attuator”.
È colpa della SOGIN che non riesce a
soddisfare le richieste del Commissario! Povero generale che si trova a
combattere contro se stesso!
Ad aprile del 2006 il progetto CEMEX è
ancora in alto mare. Come del resto lo è ancor oggi anche se il 15 maggio 2007
la nuova dirigenza SOGIN, descrive il progetto come fosse pronto a partire. « Abbiamo realizzato il nuovo parco serbatoi,
dove il trasferimento avverrà non appena l’APAT rilascerà le relative
autorizzazioni [il trasferimento è iniziato nel luglio 2008]. Successivamente questi rifiuti verranno
cementati da un impianto che abbiamo già progettato e per la cui realizzazione
a breve indiremo una gara. Esso servirà anche per la cementazione di quei
rifiuti liquidi radioattivi che deriveranno dalle attività di decommissioning.
L’iter di autorizzazione per l’impianto di cementazione è iniziato nel 2005, ma
non si è ancora concluso. È inoltre prevista a Saluggia la realizzazione di due
depositi per ospitare, rispettivamente, rifiuti di seconda e di terza categoria
». Quasi le stesse parole che diceva il commissario Jean nel 2005. Ma a
dirle è il nuovo Amministratore della SOGIN, il dottor Massimo Romano alla
Commissione Bicamerale su Rifiuti il 15 maggio 2007.
Alla popolazione di Saluggia cosa dicono?
Nel corso del tavolo della trasparenza, il 25 luglio 2007 l’ingegner Lucchesi
(SOGIN) ha detto che «Il CEMEX verrà
costruito vicino al nuovo parco depositi e servirà a solidificare i rifiuti
liquidi presenti appunto nel nuovo parco serbatoi. Anche per questo SO.G.I.N. è
in attesa di autorizzazione da parte di A.P.A.T., mentre esiste già il sì della
Regione».
Insomma il progetto è pronto, la gara per
trovare l’azienda cui appaltarlo è pronta, la Regione ha dato il proprio
assenso. Si attende solo che l’APAT dia il via al progetto. Cosa aspetta l’APAT
ha fornire le autorizzazioni?
Come evidenzia « La Gazzetta di Saluggia »
nel numero del 1° settembre 2008,
intervistando il dottor Bove, l’APAT ha in casa il progetto CEMEX sin dal 2005
ma non ha ancora fatto partire alcuna formale autorizzazione per un semplice
motivo: che per cementare le scorie serve la matrice cementizia che la SOGIN
non ha ancora individuato! Senza quella formula, spiega Bove alla Gazzetta,
tutto il progetto resta sulla carta. La SOGIN sta ancora facendo le prove e di
tanto in tanto li tiene informati di quello che va facendo ma in maniera
informale e alla precisa domanda della Gazzetta, Bove risponde: « ho avuto delle informazioni relative alle
prove che stanno facendo perché ogni tanto veniamo aggiornati, e abbiamo visto
anche noi che ci sono dei numeri ballerini che variano a seconda del prodotto
». Per essere chiari: è compito della SOGIN fornire all’APAT la matrice di
prequalifica; sino a che non la propone può fare tutte le prove che vuole.
Come spiega Bove alla Gazzetta, il processo
di cementificazione delle scorie liquide è abbastanza complesso e prevede vari
step. Il primo è la prequalifica della matrice cementizia che avviene facendo
“prove a freddo”; si simula un composto liquido con le caratteristiche chimiche
di quello originale e si testano diverse tipologie di calcestruzzo. Il problema
principale, infatti, non è testare la capacità del calcestruzzo di trattenere i
radionuclidi dovuti al processo di decadimento delle scorie – quella è una
proprietà del materiale – ma contrastare le sostanze chimiche presenti nel
liquido (nel nostro caso acido citrico, alluminio, mercurio) perché il composto
duri nel tempo. Il cemento usato deve inoltre rispondere a criteri
internazionali che prevedono la resistenza a processi fisici termici e chimici.
Ad esempio deve resistere agli sbalzi di calore, allo schiacciamento, alla
lisciviazione, cioè alla possibilità che l’acqua, alla fine, filtri nel
calcestruzzo.
Trovata la matrice più adatta la SOGIN
informerà l’APAT che la esaminerà. A quel punto l’APAT inizierà formalmente
l’analisi del progetto seguendo passo passo la SOGIN nel corso delle “prove a
caldo”, cioè unire cementizia con il
liquido radioattivo. Liquido, è bene sapere, che deve essere prelevato dai
serbatoi d iraccolta. Un operazione particolare che sarà fatta a pochi metr dal
corso di un fiume. Se tutte le prove saranno positive l’APAT inizierà ad
esaminare il progetto tecnologico, cioè la macchina che dovrà cementificare il
prodotto, nonché i progetti dei depositi. Come precisa Bove l’apparato dovrà
essere sicurissimo perché se un corto circuito provocasse un incendio durante
la lavorazione di maeriale radioattivo le conseguenze sarebbero catastrofiche.
I cittadini di Saluggia possono dormire
sonni tranquilli: le scorie liquide resteranno ancora per molti anni al sicuro
nei contenitori sistemati a pochi metri dal fiume.
L’Affare
Russo
A giugno del 2002 a Kananaskis (Canada), nel
corso di una delle tante riunioni dei 7 paesi più industrializzati al mondo,
gli Stati Uniti d’America proposero un progetto denominato «Global
Partnership», ovvero un intervento a livello mondiale per smantellare gli
obsoleti armamenti nucleari, chimici e biologici dell’ex – Urss.
La bonifica era considerata essenziale
perché la Russia di Putin non aveva le disponibilità finanziarie per porre in
sicurezza questo arsenale abbandonato e disperso nel territorio, che riguarda
un’intera flotta di navi e sottomarini nucleari in disarmo, nonché fabbriche
chimiche semiabbandonate. Il vecchio arsenale, costruito nel corso degli anni
della guerra fredda, dovrebbe essere posto in sicurezza, considerato il
pericolo terrorista che potrebbe avvantaggiarsi della situazione per
procurarsi, con facilità, strumenti e materiale adatti a costruire le
cosiddette armi di distruzione di massa. Un progetto unico, dalla durata
decennale, che sarebbe stato fi- nanziato con 20 miliardi di dollari: 10 messi
dagli Stati Uniti e 10 dagli altri stati.
Per il neo governo di centrodestra è
l’occasione per dimostrare come l’Italia sia degna di sedere al tavolo dei
grandi. Un’Italia che solo l’anno prima aveva ospitato la riunione del G7, a
Genova, e non ne era uscita molto bene per la devastazione attuata dai « black
block » e i soprusi della polizia a Bolzaneto.
A Kananaskis si definiva la possibilità di
rivalutare l’immagine dell’Italia e la sua capacità politica. Quel progetto
poteva rappresentare un bel biglietto da visita per la nazione che qualche mese
dopo avrebbe assunto la presidenza del parlamento europeo. L’offerta italiana
risulterà una delle più alte: 1 miliardo di euro in 10 anni per realizzare tre
progetti: lo smantellamento della flotta di sottomarini nucleari bloccati nei
ghiacci del Mare del Nord (360 milioni di euro), la bonifica dell’industria
chimica di Pochet (360 milioni di euro) e la riqualificazione degli scienziati
nucleari (280 milioni di euro). Una
follia che gli italiani avrebbero pagato a caro prezzo sopratutto in un momento
di recessione economica mondiale.
Per il momento uno solo degli accordi è
stato ratificato: quello stipulato a Roma il 6 novembre 2003, per 360 milioni
di euro (700 miliardi di lire) per lo smantellamento dei sottomarini nucleari.
L’accordo prevede 6 progetti ed è stato presentato al Parlamento per la
ratifica il 19 novembre 2004.
I progetti sono:
- “lo smantellamento di tre sottomarini a
propulsione nucleare (budget 70 milioni di euro);
- la realizzazione di “un impianto centralizzato
a livello regionale per il trattamento di rifiuti radioattivi solidi finora
accumulati e di quelli che deriveranno dalle operazioni di smantellamento”;
- la messa in opera “di un impianto
trasportabile per il trattamento dei rifiuti radioattivi liquidi (budget 133
milioni di euro)”;
- la “realizzazione dei sistemi di
protezione fisica (security) delle basi navali che ospitano materiali
radioattivi e combustibile nucleare irraggiato (45 milioni di euro)”;
- la “progettazione e la realizzazione di contenitori
per il trasporto e lo stoccaggio temporaneo di elementi di combustibile
nucleare irraggiato (budget 30 milioni di euro)”;
- “la progettazione e la realizzazione di un
mezzo navale idoneo al trasporto, dopo smantellamento, dei contenitori di materiali
radioattivi e delle sezioni centrali dei sottomarini, contenenti i reattori
nucleari (budget 60 milioni di euro”.
Un accordo che vede la SOGIN del generale
Carlo Jean, insediatosi sulla poltrona di presidente a novembre del 2002,
impegnata a diventare il « general contractor » del progetto. Questa potrebbe
essere una possibile chiave di lettura per comprendere l’accelerazione subita
dagli eventi che porteranno il 14 novembre 2003 il governo Berlusconi ha
sceglkiere Scanzano come luogo dove costruire il Deposito Nazioanle per le
scorie radiaottive.
A novembre del 2003 in Senato era in
discussione il cosidetto DdL Marzano sul “Riordino del settore elettrico”. In
quel DdL c’era anche la delega al governo per la ricerca del Deposito. E il
governo aveva indicato la SOGIN come suo braccio operativo. Non si parlava di
siti specifici.
A leggere i resoconti parlamentari sembra
che il nome di Scanzano e delle sue miniere di salgemma sia stato fatto dal
governo stesso qualche giorno prima del licenziamento di quel decreto.
Perché accelerare la scelta con un decreto
d’urgenza quando in pochi mesi il Parlamento avrebbe comunque delegato al
governo e alal SOGIN quella decisione?
Le date parlano chiaro: da giugno ai primi
di novembre del 2003 la situazione italiana è pressoché ferma, con la SOGIN
intenta a realizzare il secondo studio per trovare il sito dove costruire il
deposito nazionale. Ma dopo il 6 novembre, data della firma dell’accordo con i
Russi, tutto accelera: il 9 novembre la SOGIN consegna lo studio che individua
a Scanzano Ionico il sito ideale ed il 13 il governo licenzia il decreto 413
che avrebbe trasformato, in pochi mesi, la zona presso le miniere di Monte
Cavone in una discarica nucleare sotto il controllo militare. Si voleva forse
chiudere al più presto il problema dello smantellamento nucleare italiano per
concentrarsi su questo progetto?
Che l’accordo sia importante per la SOGIN lo
dimostrano le dichiarazioni che il generale rilascia l’11 maggio 2005 alla Commissione Bicamerale
sui Rifiuti che lo ascolta sull’avanzamento dei lavori di smantellamento.
«Da
ultimo, vorrei che l’attenzione della Commissione, in ragione dell’interesse
che la questione riveste per tutti i parlamentari, fosse rivolta al forte
ritardo nella ratifica dell’accordo della global partnership con la Russia.
L’accordo, che riguarda anche lo smantellamento e la gestione dei combustibili
in Italia, consentirebbe di ottenere un importante risultato su questo fronte.
Per comprendere il suo rilievo, basti pensare che, attualmente, in base ai
rapporti intercorrenti tra i due paesi, se, ad esempio, l’Inghilterra perdesse
la gara avrebbe facoltà di chiedere il rientro in Italia – con un preavviso di
due anni – dei flask esistenti, cioè delle scorie (non plutonio, non uranio)
derivanti dai precedenti riprocessamenti in Inghilterra. Cosa faremmo se il
rientro ci venisse richiesto nel 2007? Invece, nel caso della Russia, in virtù
della sottoscrizione di questo accordo (lo smantellamento dei sottomarini),
saremmo nelle condizioni di inviare quei materiali ancora per circa cent’anni,
in attesa del famoso deposito nazionale attualmente inesistente ».
Un deputato, l’on. Donato Piglionica, dei
DS, che più di altri ha seguito le vicende della SOGIN chiede al generale di
spiegare meglio come la possibilità dell’esportazione sia collegata
all’accordo. « Sarebbe utile comprendere
meglio questa global partnership con la Russia anche per comprendere quali
vincoli esistano al riguardo – dice – Mi
è parso infatti di capire che, in caso di difficoltà, se per esempio
l’Inghilterra ci richiedesse il rientro del materiale riprocessato a
Sellafield, andremmo incontro ad alcune difficoltà, e forse il rapporto con la
Russia potrebbe metterci al riparo da tale rischio. È prevista nell’accordo
stretto con la Russia, la possibilità di stoccare provvisoriamente nei loro
depositi tale materiale? »
« È
vero – risponde il generale – nei
nostri accordi con i russi non è compresa la menzione del deposito di materiali
italiani in Russia. Per quale ragione? Perché si tratta di accordi relativi
allo smantellamento di sommergibili nucleari, accordi standardizzati che
rientrano nell’ambito del G8, nel quale ricade la global partnership. Esiste
una legge russa, la n. 358 dell’11 luglio 2003 ».
« Non
era quella che vietava il deposito di materiali? » – lo incalza Piglionica.
«Vieta
il deposito definitivo – risponde il generale – e consente, tramite accordi intergovernativi, il deposito temporaneo ».
Ed ecco l’escamotage, il favore che
potrebbero fare I russi. « I nostri amici
russi sono sempre molto simili a noi, anche come fantasia! Pertanto, il
deposito temporaneo può arrivare fino a cento anni. [...] Approfittando quindi dei rapporti molto
buoni con la Russia e del personale che la SOGIN ha in quel paese, nell’ambito
della global partnership, dovremo predisporre un deposito per il materiale
radioattivo dei motori nucleari dei sottomarini. Il deposito sarà più grande e
quindi vi saranno depositati altri materiali. Si pagherà probabilmente una
locazione: l’importante è risolvere un problema che in Italia non è
risolvibile. Vorrei ricordare tuttavia che l’accordo non comporta, né può
comportare, la dismissione dei materiali (vi sono stati dei pour parler anche
ad alti livelli). Quando il Parlamento ratificherà l’accordo, cercheremo di
predisporre un deposito alquanto ampio ».
Come a dire che l’unico sistema per
risolvere il problema della sistemazione delle nostre scorie radioattive sono
delle promesse “furbesche” tra amici e che l’unica soluzione può essere trovata
in un “pour parler” davanti ad una bottiglia di vodka tra Berlusconi e Putin?
Possibile che l’accordo per la bonifica della flotta nucleare russa incastrata
nei ghiacci del mare del nord sia stata fatta per avere la possibilità di
mettere là le nostre scorie radioattive?
« Mi
sembra alquanto curioso che di questioni del genere si sia discusso a livello
di pour parler tra i vertici –
risponde infatti un sorpreso Sodano – Lei
ci sta dicendo quindi che non c’è un accordo, considerato che il decreto del
dicembre 2004 non autorizza a portare in deposito temporaneo i rifiuti nella
Federazione russa. Non comprendo quindi come si possa, con tanta leggerezza,
parlare di un deposito temporaneo. Lei ci dice che i russi sono simili a noi:
quindi il deposito temporaneo potrebbe durare anche qualche decennio, senza
alcuna autorizzazione da parte del Parlamento (russo) ».
È qui che il generale si accorge di aver
esagerato e inizia ad arrampicarsi sugli specchi per giustificare le sue
parole, dicendo che, per quanto l’accordo non preveda l’esportazione dei
rifiuti, «tuttavia i rapporti che vengono
sviluppati consentono di accordarsi su altre forme di collaborazione. Insomma
– replica il generale – una volta che si
inizia a lavorare insieme, anche se in un settore differente, si acquista una
fiducia reciproca, e posso assicurare che il personale della SOGIN ha saputo
conquistarsela, da parte dei russi ».
L’audizione è interessante perché rivela
alcune situazioni strane. Ad esempio che la SOGIN, sin dal 2004, ha aperto
degli uffici in Russia. Ma l’indirizzo ministeriale non parla di alcuna
operazione di smantellamento da fare all’estero né di aperture di uffici. E
infatti, nell’aprile del 2005, quando l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il
Gas deve ratificare le spese SOGIN per gli anni 2002-2004 rileva come quello
che la SOGIN ha fatto in Russia non fosse formalmente autorizzato. La SOGIN non
ha avuto alcuna autorizzazione formale a lavorare in Russia, ma vi ha aperto un
ufficio. Significa questo che il governo l’ha autorizzata in maniera non
ufficiale a rappresentarlo nel confronto con ROSATOM, l’Ente nazionale nucleare
Russo?
Centra qualcosa l’accordo per i sottomarini?
Dall’audizione sembra emergere che la «
simpatia italiana » basti a convincere i russi a prendersi le nostre scorie.
Possibile che da una parte ci sia un accordo scritto che regala 360 milioni di
euro alla Russia per sistemare i suoi sommergibili obsoleti in cambio di una
generica promessa di favorirci nella soluzione della sistemazione delle nostre
scorie radioattive?
È chiaro che il generale usa la questione
delle scorie per premere sul– l’acceleratore della ratifica dell’accordo per
sbloccare i 360 milioni che la SOGIN controllerà. Lui sa benissimo che
l’opzione russa quale destinazione per il nostro combustibile non sia
praticabile.
Ma si deve ratificare l’accordo.
In che modo la Sogin controllerà il
finanziamento di 360 milioni ai quali sembra tanto interessata? Lo possiamo
sapere leggendo il DDL 5432, cioè il disegno legge che il 28 luglio 2005 viene
ratificato dal Parlamento, al quale è allegata la “scheda tecnica” che
specifica l’ammontare della cifra, suddividendola per la realizzazione dei
progetti e per la costituzione dell’organismo di controllo dei progetti stessi.
Secondo la scheda è prevedibile che
i costi per la gestione dell’Accordo, previsti dalla Convenzione,
ammontino a circa 40 milioni di euro, che dovranno essere coperti con fondi
stanziati da parte italiana”. Ma chi gestirà questi soldi? Secondo l’accordo il
controllo del progetto sarà gestito da un “Consiglio Direttivo” composto da 4
membri (art. 4 dell’accordo). Dovrebbe perché I soldi non saranno gestiti dal
Consiglio ma direttamente dall’UPG, cioè l’Unità di Gestione Progettuale.
“L’UGP sarà costituita da esperti – si legge nella scheda – sia di parte
italiana che di parte russa, ed opererà per tutta la durata dell’Accordo,
presso un ufficio con sede a Mosca”.
E la SOGIN? La SOGIN entra nell’accordo in
questo modo: al funzionamento dell’UGP, dice la scheda, “provvederà la società
SOGIN, in base ad una convenzione da stipulare con il Ministero delle Attività
Produttive”. Quindi: il controllo dei lavori è a carico dell’UPG che ha un
ufficio permanente a Mosca ma i soldi da dare all’UGP li gestirà la SOGIN.
Di conseguenza chi controlla l’UPG? La
Sogin, che controlla i fondi, anche se nella teoria il controllo lo avrebbe il
“Consiglio Direttivo” che oltre a provvedere alla “composizione dell’Unità di
Gestione Progettuale, precisandone le competenze e le regole di funzionamente”,
avrebbe il compito di “favorire la cooperazione, vigilare sull’andamento
complessivo dell’Accordo, approvare i singoli progetti che verranno selezionati
e dirimere eventuali controversie (art. 4 dell’accordo italo-russo)”.
Il Comitato allora a che serve? A
scorrazzare tra Roma e Mosca ogni tre mesi I membri del “Consiglio Direttivo”
che dai 4 decisi nell’accordo del 6 novembre diventano 10 nella ratifica
parlamentare.
Il Comitato Direttivo sarà diviso in due
unità: la prima composta da 5 italiani e 5 russi che si riunirà due volte
l’anno – una volta a Mosca e una volta a Roma; la seconda, che viene descritta
come “missioni di funzionari italiani a Mosca per visite di monitoraggio e
verifica dei lavori”, composta da 3 funzionari. Se per la prima unità in un
anno i viaggi saranno due, per la seconda, a quanto pare più tecnica , se ne
prevedono ben 5.
Se per la prima si prevedono “due funzionari
di livello dirigenziale e tre esperti
(lo stesso per la parte moscovita)”, per la seconda si considerano “tre
funzionari”. In pratica per il controllo dell’accordo ci sarà un ufficio
permanente in Russia composto da 4 persone e un Comitato Direttivo di 10
persone e 3 funzionari. In totale 17 persone, delle quali 4 impegnate in loco e
13 in gite di piacere a Mosca o a Roma, considerato che, dice la scheda, le
gite avranno la “durata di 5 giorni ciascuna”.
In conclusione un ulteriore spesa di 500.000
euro che non si capisce che senso abbia. Certamente una goccia nel mare del
finanziamento totale, ma la dimostrazione di come la nostra classe politica
sfrutti ogni possibilità per farsi dei favori a spese dei cittadini italiani.
La cosa interessante è che si sa quanto
costeranno i progetti (310 milioni di euro) e quanto costerà controllarli (40
milioni di euro) ma non si sa quanto sarà la parcella che servirà a compensare
la SOGIN del suo lavoro, considerato che la convenzione, pur facente parte
dell’accordo (articolo 3), sarà definita a posteriori.
La “scheda tecnica” per le missioni del
Comitato Direttivo. Notare l’arrotondamento finale. Una spesa totale di 375.000
euro si “arrotonda” a 500.000 euro.
La convenzione viene firmata solo il 3
agosto 2005, dopo la ratifica parlamentare, dalla SOGIN, rappresentata dal suo
amministratore l’Ing. Giancarlo Bolognini, ed il Ministero delle Attività
Produttive, rappresentato dal dottor Sergio Carruba, Direttore generale per
l’Energia e le Risorse Minerarie, che nomina la SOGIN “organo rappresentativo
del governo” per il progetto italo-russo. L’ufficio del dottor Carruba è molto
importante nell’organigramma del Ministero delle Attività Produttive: tanto
importante quanto sconosciuto ai più.
È a questo organismo, infatti, che il
ministero ha delegato tutta la materia sulle questioni energetiche, come
“l’elaborazione delle linee di politica energetica di rilievo nazionale”, i
“rapporti con l’Unione Europea e con le Organizzazioni internazionali nei
settori energetico”, “l’applicazione e l’attuazione delle leggi afferenti i
settori del petrolio, del metano, del carbone, del nucleare, dell’energia
elettrica, del risparmio energetico, delle fonti rinnovabili e del minerario” e
“della vigilanza e dell’attività di indirizzo di enti e società pubbliche o
concessionarie di servizi nel settore energetico (quali ENEA, SOGIN e GRTN),
nonché di altre materie connesse o complementari con prevalenza di aspetti
inerenti le risorse energetiche o minerarie”.
In pratica nelle mani di una persona, il
professor Sergio Garribba, sta il controllo della politica energetica del
governo.
La data della firma ed in che cosa consista
la “convenzione” tra il ministero e la SOGIN lo sapremo solo il 27 marzo 2006,
a quasi un anno dalla ratifica dell’accordo. Il merito di portare a conoscenza
del Parlamento la “convenzione” è dell’onorevole Aleandro Longhi, senatore del
gruppo DS, che propone un’interrogazione scritta alla Presidenza del Consiglio
per chiedere spiegazioni su alcune parti dell’accordo non chiari.
« Il
meccanismo previsto dalla convenzione non è molto lineare – scrive Longhi
nell’interrogazione – e prevede che
all’inizio di ciascun anno il ministero delle Attività Produttive trasferisca
alla SOGIN i fondi sulla base della disponibilità annuale, ovvero 44 milioni di
euro a decorrere dal 2006. I fondi confluiscono sul conto Global Partnership
che è amministrato dalla stessa SOGIN. La SOGIN addebita su questo conto, sia i
propri costi, sia quelli della UGP, anche se questo non è chiaramente indicato.
Il ministero riconosce alla SOGIN un importo aggiuntivo del 25% sui costi
sostenuti, percentuale che comprende l’aliquota del 20% accantonata per
attività di promozione, controllo ed ispezione svolta dal ministero ».
In pratica alla SOGIN andrà una percentuale
in base al costo del progetto approvato da lei stessa, visto che controlla i
soldi dell’accordo e l’UPG. Come a dire che più il progetto sarà costoso più
alta sarà la percentuale per la SOGIN e sarà lei stessa a decidere la
convenienza del progetto.
Inoltre a questa percentuale si deve
aggiungere un’aliquota per il ministero stesso. Chi vieterà alla SOGIN di
scegliere quello più costoso per avere una percentuale più alta? Chi vieterà al
ministero di confermare la scelta, considerato che, anche la sua percentuale
varia a seconda del costo del progetto?
Per Longhi questa confusione potrebbe
portare a ben altre condizioni.
« Dai
ministri vorrei sapere se non ritengano che con una convenzione così “aperta”
non diventi difficile il controllo delle spese; quale sarà l’importo finale e,
soprattutto, la reale destinazione degli accantonamenti; per quale motivo il
ministero dell’economia e delle finanze debba pagare una quota di maggiorazione
del 25% ad una società di sua proprietà; per quale motivo il 20% destinato alla
copertura dei costi per le attività di promozione e di controllo del Ministero
è custodito dalla SOGIN e non dal ministero stesso; se in realtà quel 25% di
fondi accantonati non possa essere considerato il preludio di un fondo nero
».
Tante domande, nessuna risposta. Infatti
l’interrogazione di Longhi non ha avuto alcuna risposta, se non quella che si è
data l’onorevole nel chiedere se non vi fosse la possibilità che questa
confusione facesse sì che qualche milione finisse nelle tasche di qualche
dirigente della SOGIN.
Della Global Partneship si sono perse le
tracce sino all’ottobre 2006, quando la Presidenza del Senato ha ospitato, il
18 ottobre, nella sala capitolare della biblioteca in piazza della Minerva, a
Roma, una conferenza dal titolo: « L’Italia e il partenariato per il disarmo
nucleare e chimico », cioè un incontro per discutere, come dice il comunicato
stampa della presidenza, “sulle iniziative di Global Partnership del G-8 ed il
ruolo svolto dall’Italia nella non proliferazione e nell’eliminazione delle
armi di distruzione di massa e dei sistemi correlati sul territorio russo”,
ovvero “come l’Italia possa ottimizzare al meglio il suo sostanziale impegno
nella Global Partnership ed aumentare l’efficacia dei suoi progetti di non
proliferazione, attraverso una più attiva partecipazione e cooperazione con
altri paesi della Global Partnership in merito all’adempimento degli scopi e
degli obiettivi del vertice canadese di Kananaskis del 2002”.
Incredibilmente si prende atto che una
decisione assunta nel 2002 dal governo Berlusconi e che ha prodotto un accordo
con i russi, che presenta più ombre che luci, si trasformi in un progetto del
governo di centrosinistra.
Alla conferenza, patrocinata
dall’associazione Green Cross fondata da Michael Gorbaciov, la delegazione
italiana è composta dal generale Jean e dal Direttore generale del Ministero
degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata.
Non solo il governo Prodi fa sua l’infausta
promessa che il governo Berlusconi ha fatto a Bush, a Kananaskis nel 2002, ma
si fa rappresentare dallo stesso generale Jean che, dai banchi dell’opposizione,
ha attaccato per la sua politica decisionista e poco trasparente.
La delegazione porta con sè due lettere
molto importanti: una del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed
una del presidente del Consiglio, Romano Prodi.
Le lettere sono molto chiare e, se per il
presidente della Repubblica si tratta di un telegramma di auguri per la buona
riuscita dell’incontro, un atto formale per la fama della fondazione, per Prodi
è un progetto da « proseguire nello
sforzo avviato e tradurlo in ulteriori progetti di cooperazione », per i
quali, scrive, « la volontà politica non
manca ». Aggiunge anche che è « necessario
uno sforzo aggiuntivo, da parte di tutti – Italia compresa – affinché i vincoli
sempre più rigorosi dei bilanci nazionali non siano d’ostacolo al mantenimento
degli impegni assunti ».
Pur in presenza di problemi finanziari il
progetto da 360 milioni deve andare avanti! È la benedizione della promessa
Berlusconiana fatta nel 2002 a Kananaskis che il governo di centro sinistra,
dopo che dai banchi dell’opposizione ha tuonato contro l’incompetenza della
SOGIN e contro le spese esagerate, fa suo.
« A
partire da quest’anno (2007) – scrive Prodi – il finanziamento per l’Accordo bilaterale con la Russia è a regime con
lo stanziamento di 44 milioni annui per 8 anni. Si è già avviato lo
smantellamento del primo (di 3 previsti) sommergibili nucleari in disarmo e si
stanno avviando le altre azioni volte a creare una infrastruttura per la
gestione ecologica dei materiali radioattivi [...]. Tutto ciò nella consapevolezza dell’obiettivo comune di consegnare ai
nostri figli ed ai nostri nipoti un mondo più sicuro e di tenere fede agli
impegni presi in ambito internazionale ».
Belle parole che ci dicono come il progetto,
partito già nel 2005, che ha già impegnato 8 milioni di euro, ne disporrà di
altri 44, un “tesoretto” che forse sarebbe meglio investire in altro modo.
Quello che vorremmo sapere è se la
convenzione tra la SOGIN ed il ministero, con le sue ombre, sia sempre valida.
SOGIN
ed il polo per il ritorno al nucleare
L’Italia ha voglia di tornare al nucleare.
Il governo Berlusconi lo ha promesso in campagna elettorale. In senato a metà
gennaio 2009 si discuterà un DdL, il 1195, che al suo interno contiene degli
articoli che riapriranno questa strada. In questo disegno non c’é posto per la
SOGIN che sarà commissriata e smembrata. Una parte andrà sicuramente a formare
l’Agenzia di Sicurezza Nucleare governativa promossa dal Ddl: gli altri “pezzi”
andranno alle sezioni nucleari dell’ENEL e dell’ANSALDO.
La SOGIN Il suo compito lo ha eseguito bene:
I siti da smantellare sono ancora siti nucleari pronti ad ospitare nuove
istallazioni e, finalmente, gli ingegneri SOGIN, la maggior parte iscritta alla
AIN (Associazione Italiana per il Nucleare) potrà partecipare a questa
rinascita.
Proprio quando la nuova presidenza
statunitense intende farsi carico del surriscaldamento del globo favorendo lo
sviluppo delle energie rinnovabili, tanto da aver promesso in campagna
elettorale “di creare nel giro di dieci
anni 5 milioni di posti di lavoro nel settore dell'energia pulita e di arrivare
a un taglio delle emissioni di C02 dell'80% entro il 2050”., l’Italia sta studiando come far ripartire l’avventura nucleare
interrotta nel 1987 per volontà popolare.
L’avventura ripartità grazie ad un Disegno
di Legge dal titolo: “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione
delle imprese, nonche´ in materia di energia” che il 3 ottobre è arrivato al
senato dopo essere stato discusso e approvato in prima lettura alla Camera.
Disegno legge che sembra sarà approvato definitivamente entro natale,
In pratica una serie di iniziative
legislative che nelle intenzioni del governo dovevano aiutare la crescita delle
piccole e medie imprese al di fuori del mercato nazionale, ma che serviranno
sopratutto alla ripartenza surrettizia dell’avventura nucleare.
Ed ecco così che accanto ad articoli che
propongo la “disciplina” dei consorzi agrari (art.4), gli “incentivi” per la
internazionalizzazione delle imprese (art. 6), il “contrasto” alla
contraffazione (art.10) e le “iniziative” a favore dei consumatori e
dell’emittenza locale” (art. 12, art.13) ne troviamo alcuni che delegano la
gestione della materia nucleare al governo (art. 14) e fanno nascere un’Agenzia
di Sicurezza Nucleare (art. 17).
Un nucleare che vedrà il governo decidere
che impianti costruire, dove costruirli e controllare l’Agenzia.
Un nucleare governativo perché anche se
ilministro dello sviluppo economico per la scelta dei siti nucleari deve
sentire il parere degli enti locali e, successivamente, quello delle
Commissioni Parmamentari, basterà che Il governo dichiari quei siti “area di
interesse strategico nazionale”, con la possibilità di assoggettarli “a
speciali forme di vigilanza e di protezione” che potrà sostituirsi nella sclta
agli enti locali “in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese”.
Se il DdL non sarà modificato sarà perciò il
governo ad individuare “le caratteristiche dei territori per vedere dove
insediare le centrali” per creare “un insieme di condizioni, per cui sarà il libero
mercato l’arbitro per decidere dove è più conveniente costruirle”. E se la popolazione non è daccordo? Si fa lo stesso.
E l’opposizione come ha reagito a questa
particolare rinascita atomica voluta dal centro destra? Dividendosi tra chi ha
accettato di discutere di questa rinascita nuclere e chi ha detto un chiaro no.
Per
Matteo Colaninno, esponente del PD, è grazie all’iniziativa del suo partito se
“il 1441 ter è stato modificato nelle parti fondamentali” ed è grazie
all’iniziativa del PD se è stata istituita un’Agenzia Nucleare “originariamente
non prevista dal governo senza la quale nessuna discussione seria sull’uso
dell’energia nucleare sarebbe credibile”.
Lo segue
a ruota il responsabile dell’ambiente del PD Ermete Realacci, negli anni ‘70
convinto ambientalista e feroce oppositore del nucleare, per il quale “un
grande Paese industrializzato come l'Italia” deve “avere una Agenzia nucleare
degna di questo nome”.
Una posizione che però non deve
essere spacciata, precisa, “per un consenso al tipo di scelta nucleare che il
Governo vuole fare”.
Gli unici dell’opposizione a dire un
no deciso sono i radicale che reputano l’Agenzia e il decreto “uno
smantellamento di quanto si era prodotto di buono dopo il referendum sul
nucleare”,
L’Italia torna al nucleare quindi. Un
nucleare che sarà sicuramente governativo e probabilmente… un pò di sinistra.